Assistere un familiare
Comunicare
Linguaggio verbale e linguaggio non verbale
La comunicazione si può definire come uno scambio di informazioni che avviene tra due o più individui con la finalità di emettere e ricevere segnali in un processo dinamico tra i soggetti coinvolti.
Attraverso la comunicazione si esprimono anche gli stati d’animo (paura, gioia, collera ecc.), oltre a veicolare con particolari modelli di trasmissione le intenzioni del messaggio: persuasive, emotive, poetiche, informative.
I due soggetti principali dello scambio dei contenuti della comunicazione sono: l’emittente e il ricevente.
L’emittente è colui che crea la trasmissione delle informazioni scegliendo il contenuto del messaggio, utilizzando il suo vocabolario e i significati che riesce ad attribuire al dato.
Il ricevente, invece, è colui che interpreta i dati dell’emittente attribuendo un’interpretazione soggettiva e un giudizio sui contenuti. Senza alcun dubbio si può affermare che l’uomo impiega la parola come mezzo di comunicazione principale.
Oltre ai soggetti della comunicazione (emittente e ricevente), vi sono poi moltissimi altri aspetti che in un processo comunicativo devono essere tenuti in considerazione, soprattutto quando l’emittente è un ammalato che ha difficoltà a esprimere i propri contenuti. La comunicazione è resa molto più efficace quando esiste una buona capacità di intendersi basata su calore umano, espressività e appartenenza allo stesso gruppo, che rappresentano tutti aspetti fondamentali in un rapporto comunicativo; l’insieme di questi elementi è definito empatia.
L’empatia è la capacità di ascoltare con vivo interesse ciò che viene detto senza esprimere subito giudizi pro o contro i contenuti espressi; è un atteggiamento di apertura. L’empatia è molto utile nel processo terapeutico.
Un altro importantissimo aspetto della comunicazione è rappresentato dalla modalità con cui viene effettuata: molte persone interpretano il linguaggio dando significati differenti a un discorso (contenuto soggettivo), altri invece percepiscono dal linguaggio sfumature non sempre codificabili, una specie di sensazione a “pelle”; questa lettura è il risultato di una serie di messaggi che vengono forniti al ricevente senza che si utilizzino le parole, cioè veicolati attraverso il linguaggio non verbale.
Il linguaggio verbale e quello non verbale fanno parte del sistema comunicativo dell’essere umano.
Il linguaggio non verbale è molto più efficace e “onesto” rispetto a quello verbale e non può essere facilmente modificato poiché è regolato da centri cerebrali molto “antichi”; questo fa sì che i contenuti reali non riescano a essere mascherati con le parole. Il linguaggio non verbale esprime l’interiorità di un individuo, fa trasparire le emozioni senza filtri, è difficile da controllare razionalmente, contribuisce alla presentazione di se stessi e rafforza la comunicazione verbale.
Della comunicazione non verbale fanno parte la gestualità e la mimica facciale, due elementi molto importanti nel processo comunicativo. Il modo di muovere il viso durante un discorso viene interiorizzato in quanto elemento di appartenenza a una data cultura, mentre la gestualità esprime ed enfatizza i contenuti profondi, istintuali.
Tutto il processo della comunicazione risente anche del timbro e del tono della voce, dello sguardo e dei movimenti degli occhi.
Come già accennato, il linguaggio non verbale implica meno sforzo nel processo della comunicazione, è più efficace e più vero. Quando si parla con una persona o la si ascolta, non è difficile cogliere i contenuti emotivi, che sono in grado di esprimere più delle parole.
Per capire bene che cos’è il linguaggio non verbale basta vedere un neonato alle prese con il mondo: non parla ma comunica in modo molto efficace gli stati d’animo e i contenuti profondi emergono con forza (pianto, disperazione, gioia). Soltanto l’inserimento nella vita sociale e lo sviluppo tenderanno a togliere carica emotiva al linguaggio non verbale, senza tuttavia riuscirci completamente.
Tutti i tipi di linguaggio servono a mettere l’essere umano in relazione con il mondo: malattia, dispiaceri e disturbi psichici possono condurre le persone verso l’isolamento e impoverire sempre più la capacità di costruire relazioni con i propri simili.
Comunicare è un’attività che non conosce soste, si comunica in vari modi da quando si nasce e si continua incessantemente fino alla morte. Qualsiasi gesto o posizione del corpo, anche se non supportati dalle parole, costituiscono comunque un modello di comunicazione e risulta comunque impossibile non comunicare a prescindere dalle strategie messe eventualmente in atto per evitare lo scambio di informazioni con altre persone.
Nelle relazioni, anche la distanza è una forma di comunicazione, infatti le distanze che intercorrono tra emittente e ricevente esprimono il tipo di qualità della comunicazione: più si è distanti dalle persone e più la relazione diventa distaccata. Chiaramente, molto dipende dal contesto in cui si parla, ma “accorciare le distanze” esprime la volontà di modificare le intenzioni nei confronti dell’interlocutore.
Alcune cose sono impossibili da esprimere a dieci metri di distanza ed è sufficiente pensare a come le distanze riescano a mettere a disagio le persone in particolari situazioni. Sarà capitato a tutti di “accorciare le distanze” in un ascensore, superando il limite tra lo spazio personale e quello intimo, e di avvertire immediatamente una sensazione spiacevole. Quindi, anche la distanza è uno strumento di comunicazione molto potente, insieme alla postura che può esprimere un atteggiamento collerico, perplesso, indifferente, timido, disteso e così via.
Quando si ha vicino un ammalato, qualunque sia la patologia che lo affligge, la postura che assume in genere o nel letto, è comunicazione precisa, poco controllabile. Se il malato giace nel letto in posizione fetale (ginocchia vicino al petto), per esempio, sta comunicando che probabilmente è in difficoltà così come quando assume particolari posizioni per difendersi dal dolore (posizioni antalgiche).
Anche il silenzio è comunicazione: avere lo sguardo fisso o guardare fuori da una finestra quando in casa vi sono altri individui vuol dire comunicare il desiderio di non parlare con nessuno.
Stare accanto a un ammalato per aiutarlo e seguirlo nel tempo implica necessariamente che si instauri una relazione tra i vari soggetti coinvolti nell’assistenza. Chi si occupa di curare deve favorire le risorse personali e la possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni e i propri contenuti, per questo motivo si dice che la relazione diventa d’aiuto.
La relazione d’aiutoè animata da attori come qualsiasi altra attività comunicativa, ma il contenuto varia necessariamente: un soggetto è in difficoltà e possiede specifiche risorse (a volte limitate) o non le possiede affatto, l’altro invece deve riuscire a stimolare le potenzialità della persona in difficoltà e, in generale, ad ascoltare.
Esistono specifiche componenti della relazione d’aiuto che sono state ben descritte da molti autori.
Una comunicazione efficace presuppone sin dall’inizio sincerità, che deve essere il presupposto fondamentale della relazione dal momento che con la menzogna non si costruisce nulla. La sincerità dovrebbe essere bilaterale, non può esservi un soggetto sincero e uno menzognero, o meglio può esistere una situazione del genere, ma allora non si può parlare di relazione d’aiuto. A casa dei malati si assiste frequentemente a modalità relazionali del tutto superficiali e false, soprattutto nel caso in cui vi siano persone alla fine della loro vita, ed è bene sapere che queste dinamiche diventano spesso un meccanismo di difesa per sopportare il dolore connesso alla malattia.
Anche la succitata empatia deve servire per instaurare una buona relazione d’aiuto. Sperimentare il mondo dell’ammalato può essere difficile quando si è operatori non coinvolti emotivamente nelle situazioni. A maggior ragione per i familiari diventa invece difficilissimo mantenere un approccio empatico con un ammalato perché, quando la componente emotiva è fortemente coinvolta, risulta quasi impossibile “restare fuori” dalla situazione. Invece, quando ad assistere è un operatore esterno, il suo comportamento dovrebbe essere vicino al mondo interiore dell’ammalato senza però venire inglobato nel suo stesso dolore, altrimenti il beneficio che il soggetto sofferente ne trarrebbe sarebbe inutile.
L’empatia può servire per cogliere stati emotivi particolari legati per esempio ad alcune procedure delicate come l’igiene intima, durante le quali l’imbarazzo può creare profonde resistenze, oppure per riuscire ad accettare tutte le cattiverie che vengono “vomitate” addosso in un solo istante in occasione di crisi colleriche. Tale atteggiamento richiede la capacità di sapere azzerare tutti i giudizi, atteggiamento molto difficile per chiunque, poiché il nostro modo di vivere ci spinge a catalogare, analizzare, capire e controllare sempre tutto.
Un altro aspetto importante della relazione d’aiuto è la capacità di ascoltare, perché senza ascolto non esistono né empatia né fiducia. L’ascolto richiede la capacità di cogliere le informazioni che provengono da un altro individuo, e per il malato può anche diventare un’attività che impegna molto tempo: parlare e manifestare i propri punti di vista, sentimenti, contenuti emotivi più o meno chiari è già un’attività di natura terapeutica e deve sempre essere alimentata.
L’ascolto viene favorito dal diminuire le distanze: come già accennato, più diminuiscono i “centimetri” che ci separano dalle persone e più si dimostra la disponibilità di entrare in contatto con l’universo dell’altro. A questo proposito si sottolinea che toccare l’ammalato con un gesto semplice come una carezza o tenergli la mano è di grande aiuto, soprattutto per le persone con difficoltà a comunicare.
Quando si ascolta il malato è bene ridurre tutte le variabili che possono ostacolare questa attività (radio, televisione, rumori di fondo in genere) e ricordare sempre che l’ascolto avviene per mezzo delle orecchie, ma che anche lo sguardo e l’atteggiamento del corpo hanno un ruolo importante.
I disturbi dell’udito e della vista, le malattie neurologiche, i disturbi della comunicazione che derivano da malattie particolari, i disturbi della memoria e i disturbi dell’attenzione possono rendere difficoltosa la comunicazione e creare difficoltà che vanno dal grado lieve fino all’incapacità totale di comunicare.
Una persona che ha difficoltà a comunicare, per l’età o per specifiche malattie, deve essere messa in condizioni di migliorare le sue capacità residue con l’ausilio di vari metodi, dai più semplici ai più sofisticati. La tecnologia mette a disposizione molti ausili per rendere meno difficoltosa la comunicazione ma, prima di ricorrere a strumenti più complessi, è sempre bene partire da quelli più semplici come, per esempio, occhiali e protesi acustiche per la correzione di deficit visivi o uditivi.
Tra i principali metodi per favorire la comunicazione ritroviamo semplici sistemi per la trasmissione di messaggi, ausili per favorire la scrittura, sistemi per favorire la lettura, sistemi per ingrandire le immagini e le lettere, sistemi di chiamata, sistemi che richiedono l’impiego di computer e così via.
Afasia: strategie per comunicare
L’afasia è un disturbo del linguaggio causato da lesioni cerebrali conseguenti ad accidenti di varia natura: vascolare, traumatica, neoplastica, infettiva; molte volte si associa ad altri disturbi neurologici come la difficoltà ad articolare le parole (disartria). L’afasico mantiene di frequente inalterate le capacità cognitive ma non riesce a rispondere o a capire ciò che gli viene detto. In linea di massima, le lesioni che colpiscono l’encefalo e che si traducono in una perdita del linguaggio sono localizzate in specifiche zone (Broca, Wernicke).
La manifestazione dell’afasia avviene con differenti modalità: sostituendo una parola con un’altra simile, articolando una parola che ha lo stesso suono ma un significato diverso, inserendo parole che non hanno nessun legame logico con il discorso.
Nell’afasia di Broca (motoria) si riscontra un’alterazione del linguaggio mentre la capacità di comprendere rimane inalterata; questa consapevolezza produce un’enorme frustrazione nel malato.
Nell’afasia di Wernicke, invece, si ha difficoltà nella comprensione dei discorsi e nel linguaggio: il paziente che ne è affetto parla coniando nuove parole (neologismi), ma non si rende conto che il suo comunicare è incomprensibile, quindi tende ad arrabbiarsi.
Questa brevissima e poco esaustiva descrizione rende chiara la grave perdita di autonomia che colpisce il soggetto afasico.
Una persona che non può parlare comunica sicuramente un enorme disagio e il distacco dalla realtà.
Tutte le persone che gravitano intorno al malato devono essere debitamente informate del problema e di quali sono le difficoltà incontrate dalla persona assistita, in modo da evitare conflitti e frustrazioni inutili. Infatti, è bene sapere che spesso chi non riesce a comunicare viene assalito da sentimenti di ogni genere (paura, ansia, aggressività) e che comunicare con soggetti che hanno difficoltà a esprimersi o a comprendere richiede molta disponibilità. Quando si parla o si cerca di comunicare, occorre ripetere più volte la frase senza scoraggiarsi; mostrarsi spazientiti aumenta la distanza e abbassa la possibilità di interloquire. Molte volte il malato tende a comunicare mediante la gestualità, che deve essere interpretata. Si possono anche adottare strategie che mirano a semplificare le istruzioni da impartire, per esempio frasi brevi, simboli, segni, immagini. Si raccomanda a chi assiste di mantenere un atteggiamento di rinforzo positivo dopo ogni risultato ottenuto. Qualsiasi forma di distrazione acustica o uditiva deve essere eliminata e, se possibile, bisogna evitare di sottoporre tanti quesiti di seguito: un’indicazione alla volta è infatti più che sufficiente.
Il logopedistapuò svolgere un’importante attività di riabilitazione e per questo motivo si raccomanda vivamente di richiederne l’assistenza: i pazienti che vengono seguiti nel processo di riabilitazione, infatti, hanno maggiori probabilità di migliorare il loro disturbo, anche in considerazione del fatto che vengono stimolati e si sentono meno abbandonati.
Per facilitare la comunicazione si può provare a utilizzare semplici metodi per la trasmissione dei messaggi come, per esempio, pannelli con immagini, situazioni o lettere che l’ammalato può indicare se ne ha la capacità. È possibile anche costruire in casa questi ausili utilizzando cartone, plexiglas, lettere adesive e simili.
In commercio sono reperibili apparecchi più sofisticati che agevolano la comunicazione di pazienti che sapevano leggere e scrivere prima dell’evento che ha scatenato l’afasia; tra questi si possono annoverare:
- sistemi di comunicazione alfabetica, ossia dispositivi elettronici che riproducono le parole digitate su un piccolo schermo o le convertono in suoni, permettono anche di memorizzare frasi già fatte per rendere più agevole la comunicazione;
- sistemi di comunicazione simbolica (comunicatori simbolici), ossia semplici strumenti composti da uno o pi ù tasti di grosse dimensioni cui associare un messaggio vocale registrato; ogni volta che il malato ha una specifica necessità può premerlo. Per esempio, registrando la frase “ho sete”, tutte le volte che verrà pigiato il tasto raffigurante l’immagine associata alla necessità di bere si ascolterà la frase già fatta. Sui tasti vengono apposte figure con il relativo significato.
I prezzi di questo genere di ausili variano da poche centinaia di euro fino ad alcune migliaia. Prima di acquistare strumenti costosi, si raccomanda di farsi consigliare dal neurologo perché in alcuni casi possono rivelarsi completamente inutili!
Tra i sistemi che favoriscono la scrittura, e che si possono impiegare quando le capacità motorie sono quasi integre e la persona è in grado di scrivere o di disegnare, vi sono le impugnature ergonomiche e i cinturini. Mantenere la capacità di disegnare o di scrivere, anche se i contenuti non sono coerenti, è molto importante per una stimolazione continua delle capacità cognitive.
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