Dolore

Sembra che Bertrand Russell, durante una visita, sentendosi chiedere dal dentista dove avesse dolore abbia risposto: “Nella mia mente naturalmente! Dove altro potrebbe far male?”. Questa affermazione racchiude in sé tutte le difficoltà insite nei tentativi di definire il dolore. Solo nel 1974 l’IASP (International Association for Studies on Pain, associazione internazionale per lo studio […]



Sembra che Bertrand Russell, durante una visita, sentendosi chiedere dal dentista dove avesse dolore abbia risposto: “Nella mia mente naturalmente! Dove altro potrebbe far male?”. Questa affermazione racchiude in sé tutte le difficoltà insite nei tentativi di definire il dolore.

Solo nel 1974 l’IASP (International Association for Studies on Pain, associazione internazionale per lo studio del dolore) definì il dolore come “esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata a un reale o potenziale danno tissutale o descritto come tale dal paziente”: in questa formulazione risulta fondamentale l’elemento soggettivo, che sottrae il dolore a una oggettiva definizione e classificazione valorizzando invece l’esperienza vissuta e riferita dal paziente. Allo stato attuale sembra opportuno distinguere due componenti nel dolore.

  1. 1. Componente sensoriale, rappresentata dal sistema anatomico e neurofisiologico (quello cioè fatto di strutture e fenomeni biochimici) deputato al rilevamento e alla segnalazione di un danno che avviene in qualche parte dell’organismo; questa componente viene anche detta nocicezione ed è rappresentata dall’insieme dei circuiti nervosi che veicolano l’impulso doloroso, trasmettendolo dal luogo in cui si origina al midollo spinale prima e al cervello poi.
  2. 2. Componente emozionale-cognitiva-comportamentale, costituita dalla risposta che ciascun soggetto genera all’arrivo degli stimoli dolorosi che afferiscono al cervello; la presenza di questa componente, detta anche algotimia, spiega perché stimoli dolorosi di uguale intensità siano percepiti in modo diverso da un individuo all’altro e perché la percezione del dolore sia situata di fatto, come rispondeva Russell nell’aneddoto citato, “nella mente” dell’uomo.


Come e perché si genera un dolore

Esistono, ed è bene considerarle in modo distinto, due diverse tipologie di dolore.

Una tipologia è quella del dolore fisiologico, che è tipicamente sempre di insorgenza improvvisa ed evocato da un preciso stimolo. Il dolore, in questi casi, si produce in seguito all’attivazione di specifiche strutture (i cosiddetti recettori periferici) da parte di un determinato stimolo, che deve essere sufficientemente intenso da riuscire a stimolare i recettori anche in assenza di qualsiasi danno dei tessuti: per fare un esempio, uno schiaffo rappresenta un tipico dolore fisiologico acuto.

Un secondo tipo di dolore è quello patologico, che può manifestarsi all’improvviso (in questi casi viene detto acuto) o persistere nel tempo (si parla allora di dolore cronico).

Il dolore si produce, in questi casi, in seguito all’attivazione dei recettori periferici in presenza di un danno presente a livello dei tessuti dell’organismo, spontaneamente o a causa di stimolazioni di minima entità (bassa soglia): sono esempi di dolore patologico acuto il dolore conseguente a un trauma o quello postoperatorio, così come la colica e il mal di denti; tutti questi esempi hanno in comune il fatto che una volta che si sia rimossa la causa o riparato il danno, il dolore cessa.

A ben guardare, questa tipologia di dolore rappresenta allora un segnale di allarme, che sta a indicare la presenza di un danno reversibile per il quale è possibile rimuovere la causa.

Il dolore patologico cronico persiste perché la stessa malattia che lo causa è cronica (per esempio una malattia inguaribile) oppure perché, dopo la guarigione della malattia o la rimozione della causa, sussistono meccanismi in grado di mantenerlo nel tempo: esempi di questo tipo sono il dolore che accompagna le malattie reumatiche croniche oppure il dolore che segue lesioni del midollo spinale o dei nervi provocate da gravi traumi.

La percezione del dolore può essere influenzata da numerosi fattori chimici: questi possono intervenire sia sull’attività dei recettori del dolore (algogeni o nocicettori) sia sul processo di trasmissione della percezione dolorosa lungo le vie nervose. Alcune di queste sostanze (per esempio le bradichinine, l’istamina, la serotonina, le prostaglandine, gli ioni idrogeno e la sostanza P) vengono prodotte dai tessuti danneggiati e sono in grado di “sensibilizzare” le microscopiche strutture deputate a generare i segnali del dolore (nocicettori tissutali).

Una volta generato, lo stimolo doloroso viaggia lungo specifiche vie nervose fino al midollo spinale e di qui al cervello in una parte chiamata talamo, vera e propria stazione di smistamento da cui l’impulso doloroso (nocicettivo) viene distribuito a diverse parti del cervello tra cui la corteccia cerebrale, sede dell’elaborazione dello stimolo doloroso: tale elaborazione produce infine la percezione soggettiva del dolore che, a parità di intensità dello stimolo originario, può variare tra persona e persona. Il risultato finale, in altre parole, non è più e non è solo la semplice percezione e trasmissione di uno stimolo di intensità e di ampiezza differente, ma un quadro clinico che coinvolge tutta la persona nelle sue dimensioni fisiche, psichiche, spirituali: è questa la condizione che chiamiamo sofferenza.

Nel suo viaggio dalla periferia (dove è avvenuta la stimolazione dei recettori) al cervello, l’impulso doloroso passa attraverso diverse stazioni, una delle quali si trova nel midollo spinale, e qui può venire “modulato”: capita cioè che alcuni stimoli con capacità inibitorie frenino l’impulso e ne condizionino il proseguimento verso il cervello. Melzack e Wall hanno ipotizzato con la loro “teoria del cancello” (vedi riquadro Cenni storici) che esista una soglia per l’impulso dolorifico oltre la quale il cervello stesso attiva sistemi inibitori in grado di ridurre l’entità dello stimolo che gli arriva.

In estrema sintesi, il dolore riconosce nella sua struttura funzionale tre elementi essenziali:

  1. 1. un sistema che conduce l’impulso doloroso dalla periferia al cervello;
  2. 2. un sistema che elabora e interpreta l’informazione dolorosa, predisponendo una strategia di risposta (motoria, ormonale, psicoemotiva);
  3. 3. un sistema di modulazione che, attraverso specifiche vie nervose, agisce a livello di alcuni snodi attraverso i quali l’impulso doloroso deve passare ed è in grado di frenarne il cammino verso il cervello.


Dolore “utile” e “inutile”. I tipi di dolore

Il dolore funzionale è una sorta di “segno di allarme protettivo”, quindi è un segnale biologico di estrema utilità per la persona. Consiste fondamentalmente di un sintomo che genera ansia e stimola il malato a rivolgersi al suo medico, il quale a sua volta dovrà cercare di ricostruire nel modo più rapido possibile la causa che ha determinato il dolore e rimuoverla, se possibile, mediante adeguata terapia: obiettivo terapeutico di questa serie di reazioni e comportamenti è la guarigione clinica.

Oltre a quello funzionale esiste però un dolore disfunzionale, rappresentato da una manifestazione dolorosa persistente che tende a riproporsi, con monotona continuità, nella vita del paziente diventando uno sgradito “compagno di viaggio”.

Questo dolore non ha alcuna funzione protettiva per l’uomo, anzi lo distrugge fisicamente, psicologicamente e socialmente, generando ansia e depressione ad andamento cronico: si configura pertanto come una vera e propria malattia, devastante e distruttrice, che prende quindi il nome di dolore-malattia.

La risposta terapeutica, in caso di dolore disfunzionale, non deve consistere solo nell’impiego di farmaci che controllino le manifestazioni dolorifiche, bensì ricercare la soglia entro la quale il dolore può essere sopportato attraverso mezzi farmacologici (i farmaci antalgici) e interventi integrati focalizzati sui bisogni della persona sofferente, in un contesto di forte attenzione agli aspetti relazionali e al supporto psicologico.

Oltre a queste due categorie principali di dolore si distinguono ulteriori manifestazioni, brevemente riassunte di seguito.

Dolore totale da cancro Un particolare tipo di dolore si manifesta nel malato di cancro.

Oggi, per fortuna, i malati di cancro possono guarire o vivere molto più a lungo, ma purtroppo in molti casi l’esito della malattia è ancora fatale. Il dolore generato dalla presenza di un tumore assume connotazioni del tutto particolari: la componente psicologica influisce in modo determinante sulla soglia del dolore e la minaccia continua verso la vita, la compromissione del lavoro e delle relazioni sociali configurano il dolore da cancro come una malattia nella malattia, motivo per cui si parla di dolore totale.

Dolore episodico intenso e dolore incidente (dolorebreakthrough) Il dolore episodico intenso ha breve durata (massimo mezz’ora) ma estrema intensità, e può risultare lancinante: insorge improvvisamente, soprattutto nei malati di cancro, anche se il dolore di base è ben controllato.

A volte è possibile identificare un fattore scatenante l’episodio, quale per esempio la tosse, o la distensione della vescica da ritenzione urinaria. Quando è un qualsiasi movimento a scatenare il dolore esso viene definito incidente.

Dolore neuropatico Viene definito dagli specialisti della materia come un dolore causato da una lesione o una disfunzione del sistema nervoso, anche se attualmente vi è un generale consenso nel limitare il termine neuropatico ai casi in cui è possibile dimostrare una lesione delle vie nervose sensitive.

Molti tipi di dolore coinvolgono i nervi e possono essere definiti come nevralgie (tipica e ben nota quella trigeminale) o radicoliti (per esempio quella che compare in seguito a compressione delle radici nervose della colonna vertebrale, come avviene nella sciatica da ernia del disco).


Valutazione del dolore

Si suol dire che “il dolore meglio sopportato è quello degli altri”, ed è infatti esperienza comune, nel quotidiano, minimizzare il dolore altrui e mettere invece in risalto il proprio, sottolineandone i risvolti di disagio.

Va tenuto ben presente il fatto che la valutazione del dolore riferito dal paziente è troppo spesso soggettiva, quindi viziata già di per sé dall’interpretazione personale di chi cura, mentre spetta al paziente, e a lui solo, definire e quantificare il dolore che avverte: nessuno può giudicare il dolore di un altro!

Da quanto appena detto si comprende come l’approccio al paziente con dolore, tanto più se si tratta di un dolore cronico, debba prevedere da parte di chi cura maggiore attenzione al­l’ascolto, mostrando empatia e disponibilità a instaurare una relazione di aiuto efficace.

Il rilevamento del tono dell’umore e dell’ansia è importante per valutare la componente affettiva ed emozionale coinvolta nella percezione dolorosa; la stessa depressione è frequentemente associata al dolore cronico (1 caso su 2-3).

Indicatori molto utili del dolore sono quelli che definiscono l’impatto sulla qualità di vita del paziente: limitazioni dell’attività lavorativa, della capacità di divertirsi, della sessualità ecc.

La necessità di quantificare il dolore dei loro pazienti ha portato i medici a interrogarsi sulla possibilità di misurare il dolore: tradurre il dato qualitativo del dolore in un ordine di misura è quanto mai necessario perché consente al medico e al paziente di comprendere meglio l’entità del dolore in causa, scegliere con più precisione i farmaci da impiegare, valutare l’efficacia della terapia impostata, confrontare i risultati di una cura su malati diversi o di trattamenti diversi sullo stesso paziente.

Esistono strumenti (scale di misurazione) molto sofisticati per quantificare le diverse componenti del dolore (sensoriale, cognitiva, psicoaffettiva, comportamentale): i questionari Mc Gill, Wisconsin-Madison e Brief Pain Inventory ne sono un esempio. Esistono però anche strumenti assai più semplici, le scale unidimensionali, che nonostante misurino solo l’intensità del dolore percepito da parte del paziente hanno il pregio di essere di facile applicazione, misurare il dolore in modo globale e, nella maggior parte dei casi, essere d’aiuto al medico nell’impostazione del programma terapeutico; di seguito ne vengono elencate alcune.

VAS (Scala visiva analogica) La scala è una retta di 10 cm, le cui due estremità corrispondono a una condizione di dolore assente o, all’estremo opposto, di massima manifestazione dolorosa. Si tratta di uno strumento unidimensionale che quantifica ciò che il malato soggettivamente percepisce come dolore o come sollievo nel complesso delle variabili fisiche, psicologiche e spirituali coinvolte, senza distinguere quale di queste componenti abbia ruolo maggiore.

Una domanda tipo per misurare l’intensità del dolore secondo questa scala è la seguente: «pensi al dolore e al sollievo dal dolore che può aver provato nella settimana appena trascorsa e, per ogni voce, metta un segno sul punto che meglio corrisponde alla sua situazione, rispetto ai due estremi della linea».

La scala può essere usata per quantificare il dolore nel momento presente; la difficoltà per alcuni malati di comprendere le istruzioni relative al dolore massimo avvertito può essere superata chiedendo loro di ricordare il dolore più forte provato nella loro vita (dolore massimo).

VRS (Scala verbale) La scala verbale semplice, sempre unidimensionale, si estende anch’essa su una linea retta di 10 cm; in questo caso la scelta viene facilitata (ma anche condizionata) dalla presenza di aggettivi che quantificano il dolore. Risultati soddisfacenti si ottengono quando vi sono almeno sei livelli di intensità. La domanda a cui rispondere per definire l’intensità del dolore è, per questa scala: «quanto dolore ha provato nelle ultime 4 settimane?» o «quanto dolore sta provando in questo momento?»

NRS (Scala numerica) Valgono qui le stesse considerazioni fatte per le scale precedenti. La domanda è la seguente: «considerando una scala da 0 a 10 in cui a 0 corrisponde l’assenza di dolore e a 10 il massimo dolore immaginabile, quanto è intenso il suo dolore?»

Le scale unidimensionali per misurare l’intensità del dolore possono essere costruite su uno stesso supporto che riporti su un lato la VAS e sul retro le altre scale; un cursore dotato di indicatore permetterà di correlare i dati ricavati ai diversi metodi.


Terapia del dolore: strategie

Nel 1986 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) pubblicò le sue linee guida per la terapia del dolore da cancro: l’obiettivo era fornire uno strumento efficace, condiviso e facilmente applicabile da tutti gli operatori anche non specialisti. Nel 1996 queste linee furono aggiornate, in base anche alle indicazioni ricevute dal testing della loro applicazione su oltre 30.000 malati.

Per il controllo del dolore valgono alcuni principi fondamentali, ma alla base di tutto sta un elemento: la scelta terapeutica nel dolore da cancro deve essere guidata dall’intensità del dolore (come dichiarata dal paziente), ed è in questo ambito che l’impiego delle scale prima citate rivela la sua utilità per il medico.

Le linee guida dell’OMS si possono riassumere, orientativamente, in una scala il cui primo gradino, corrispondente a dolore di lieve entità, è occupato da farmaci non-oppioidi come FANS (antinfiammatori non steroidei) e paracetamolo, il secondo (che corrisponde a dolore di intensità lieve-moderata) essenzialmente da codeina e tramadolo e il terzo gradino, quello corrispondente a dolore grave, è occupato invece dai farmaci più potenti: morfina, ossicodone, metadone, fentanyl, buprenorfina, idromorfone.

La morfina per via orale rimane tutt’ora il farmaco di riferimento, ma è stata immessa nel mercato italiano una gamma di prodotti efficaci per cui è possibile modulare e personalizzare la terapia del dolore. Di fatto, al giorno d’oggi, si calcola che con la sola terapia farmacologica sia possibile controllare il dolore in più del 90% dei casi.

L’International Narcotic Control Board nel 1997 ha dimostrato che, grazie all’utilizzo di questa scala farmacologica, è aumentata la tendenza al consumo di morfina: questa tendenza viene considerata indicativa di una aumentata sensibilità al problema dolore.

In Italia, d’altra parte, la prescrizione di morfina e in genere di farmaci oppioidi è ancora molto bassa, nonostante la recente normativa che ne semplifica la prescrizione e le evidenze circa la sua efficacia e semplicità di somministrazione (per via orale o mediante cerotti).


Terapie del dolore: farmaci

Per quanto riguarda la terapia del dolore, il medico ha a disposizione due categorie di farmaci, quella dei farmaci cosiddetti antalgici, che agiscono direttamente contro il dolore, e quella dei farmaci chiamati adiuvanti, che possono invece migliorare l’efficacia degli antalgici sia agendo sulle concause che provocano il dolore (infiammazione, edema, lesioni nervose) sia contenendo alcune patologie a questo associate come l’ansia o la depressione.

Il farmaco antalgico di primo impiego, raccomandato da tutte le linee guida e utile anche al paziente per la propria automedicazione, è il paracetamolo: in Italia non è ancora molto noto per le sue proprietà antidolorifiche, mentre se ne conosce l’effetto di contrasto alla febbre. In effetti il paracetamolo è un farmaco sicuro, efficace ed economico: la dose antalgica è di norma pari a 1 g; in caso di disturbi di fegato va assunto con particolare cautela.

Al contrario del paracetamolo, una categoria di farmaci molto presenti nelle prescrizioni mediche in Italia, ma anche di grande consumo come automedicazione, è quella dei FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Cortisonici).

Anche se da diverse parti si è posto il problema dei potenziali pericoli insiti nell’uso “spensierato”, senza la prescrizione medica, di tali farmaci (il Ministero della sanità, per esempio, ha emanato un provvedimento restrittivo per prevenire l’abuso del Nimesulide, che ora è disponibile solo su ricetta del medico), i FANS sono molto utili nella terapia del dolore, in special modo quando è presente una componente infiammatoria. Nel secondo gradino della scala analgesica OMS, il paracetamolo viene associato a due farmaci oppioidi come la codeina e il tramadolo, adatti a controllare manifestazioni dolorifiche di lieve-moderata intensità, mentre nel terzo gradino sono stati collocati una serie di farmaci con in comune l’azione di contrasto al dolore forte. Per la loro efficacia e sicurezza, tali farmaci non andrebbero però relegati alle condizioni terminali e oggi, sotto il diretto controllo medico, vengono infatti utilizzati normalmente (anche per lunghi periodi di tempo) per trattare pazienti affetti da malattie croniche come l’artrosi, le malattie reumatiche, gli esiti di traumi ecc; la morfina, derivata dall’oppio, è il farmaco capostipite di questa categoria.

Al nome della morfina si accompagna da sempre una serie di falsi miti, legati alla paura che il farmaco renda dipendenti, assuefatti, privi della possibilità di avere una vigile funzione cognitiva, e che sia quindi consigliabilie solo nei casi estremi. Si tratta in realtà di affermazioni senza fondamento, e la diffusione di questa pseudocultura priva di un’arma efficace il medico nella battaglia quotidiana contro il dolore.[P.L.A.]