Suicidio -I suicidi che non riescono (parasuicidi)
Dal punto di vista terminologico, la suicidologia europea appare orientata a includere nel termine parasuicidio tutti i comportamenti suicidari non letali, senza riferimento all’intenzionalità degli stessi (spesso difficilmente indagabile a posteriori). In altre parole, il termine si trova a comprendere comportamenti che possono variare dal tentativo a esclusiva finalità manipolatoria al gesto suicidario supportato da un’effettiva intenzionalità, fino all’azione grave e solo casualmente non letale, che in tal senso corrisponde a un tentativo di suicidio in senso stretto.
L’attuale difficoltà di definizione univoca e di classificazione ufficiale delle condotte suicidarie (suicidio, tentato suicidio, mancato suicidio, parasuicidio) è testimoniata anche dalla sostanziale assenza di specifici criteri diagnostici all’interno dei più diffusi manuali medico-scientifici. I testi di riferimento non forniscono specifici criteri di inquadramento delle condotte suicidarie di per sé, che vi figurano soltanto come manifestazioni sintomatiche o complicazioni di altri disturbi psichiatrici: il manuale DSM (Diagnostical and Statistic Manual of mental disorders), per esempio, si limita a includere i gesti autolesivi, letali o no, tra i criteri diagnostici di altre categorie psichiatriche (disturbo depressivo maggiore, disturbo borderline di personalità).
L’incidenza di episodi parasuicidari risulta ovunque più elevata nel sesso femminile, con un rapporto femmine/maschi variabile da 0,7:1 a 2:1 circa; il numero maggiore di gesti parasuicidari si registra tra i 15 e i 34 anni di età, quello minore dopo i 55 anni.
Si stima che annualmente i parasuicidi in Europa siano tra 300 e 800 ogni 100.000 abitanti di età superiore a 15 anni, variando in misura significativa nelle diverse nazioni.
In uno studio avviato in sette Paesi della CEE nel 1976, si sono registrati circa 430.000 episodi di tentato suicidio su un totale di 200 milioni di abitanti, con un tasso di 215/100.000 (162 nel sesso maschile e 265 nel sesso femminile). I dati forniti presentano un’estrema variabilità tra i diversi Paesi (da 26 a 353 ogni 100.000 maschi e da 82 a 527 ogni 100.000 femmine).
La situazione italiana L’elevata variabilità relativa alla frequenza dei gesti parasuicidari tra Paesi europei rende i dati appena forniti difficilmente trasferibili nel contesto socioculturale italiano, per il quale non si hanno dati di riferimento (a parte ovviamente il numero dei casi che si concludono con il decesso del soggetto).
Il rischio di sottovalutare la reale incidenza di questo fenomeno è in ogni caso sempre presente, in quanto si stima che solo 1 su 4 dei soggetti che tentano il suicidio arriva ad avere un contatto con le strutture sanitarie ospedaliere o con il proprio medico curante.
In accordo con tali dati, si stima che più del 75% dei gesti suicidari non fatali rimanga sconosciuto alle casistiche ufficiali. Nonostante ciò, si ritiene che l’incidenza di gesti parasuicidari sia 25 volte superiore rispetto ai casi di decesso per suicidio.
Numerosi studi indicano inoltre che le condotte parasuicidarie costituiscono uno tra i più significativi fattori di rischio di decesso per suicidio, considerando che dal 30 al 60% di tali decessi costituisce l’esito di una serie di tentativi caratteristicamente ripetitivi.
Almeno la metà dei pazienti che mette in atto gesti suicidari assume, per portare a termine tale proposito, farmaci acquistati con regolare prescrizione; gli psicofarmaci sono coinvolti nell’80% dei casi di intossicazione volontaria e nel 20% dei decessi per suicidio.
Ci sono differenze di genere? Numerosi studi confermano la prevalenza del sesso femminile nell’ambito delle condotte parasuicidarie. Secondo quanto riportato, il rapporto femmine/maschi relativo alla frequenza di gesti parasuicidari è poco inferiore a 2:1. Il dato è ulteriormente confermato da uno studio multicentrico, secondo cui tale rapporto varia, nelle diverse nazioni europee, da 0,72:1 a 2,10:1, con un valore medio di 1,54:1.
Alcuni esperti osservano che l’autoavvelenamento da farmaci sembra essere la modalità maggiormente utilizzata a scopo parasuicidario dal sesso femminile: indipendentemente dall’intenzionalità suicidaria, le donne tenderebbero infatti a utilizzare mezzi dotati di un minore impatto corporeo e di un indice di letalità, almeno apparentemente, più ridotto. Al contrario, la significativa prevalenza del sesso maschile nell’ambito delle condotte suicidarie (da 3-4 a 1) è in buona parte correlata al più frequente utilizzo di mezzi dotati di elevata letalità (per esempio le armi da fuoco).
Nei soggetti di sesso femminile è stata inoltre rilevata, rispetto al sesso maschile, una prevalenza significativamente inferiore di disturbi da dipendenza da alcol e altre sostanze.
Anche la distribuzione nei due gruppi di malattie psichiatriche è risultata significativamente diversa, con una maggiore presenza di disturbi dell’umore nel sesso femminile (64% contro il 42% dei maschi) e di schizofrenia nel sesso maschile (22% contro il 10% delle femmine). A conferma di tale dato, i disturbi dell’umore, tra i più frequentemente associati a condotte suicidarie, mostrano una prevalenza più elevata nel sesso femminile e risultano spesso accompagnati da sintomi ansiosi secondari. La prescrizione di farmaci attivi nel controllare il tono dell’umore (antidepressivi e stabilizzanti) risulta ben più frequente nei pazienti di sesso femminile, giustificando almeno in parte la maggiore frequenza di parasuicidi da farmaci nei soggetti di tale sesso.
Alla luce di queste osservazioni, appare possibile ipotizzare che i meccanismi alla base delle condotte parasuicidarie siano caratterizzati da una sostanziale diversità nei soggetti di sesso maschile e femminile: su base prevalentemente impulsiva per i primi e prevalentemente affettiva per le seconde.
Alcuni dati provenienti da specifiche ricerche concordano nell’indicare che i farmaci utilizzati nel trattamento dei disturbi psichiatrici costituiscono quelli poi più spesso utilizzati con finalità parasuicidarie.
Alcuni studiosi osservano che la maggioranza delle condizioni di intossicazione da farmaci non fatali viene considerata sostenuta da una bassa intenzionalità suicidaria, e piuttosto correlata a un quadro di scarso controllo dell’impulsività o di risposta a conflittualità relazionali. I clinici tenderebbero quindi a ipervalutare gli aspetti “relazionali” e manipolatori del gesto parasuicidario da farmaci, mentre il soggetto stesso a posteriori motiva generalmente il proprio gesto con un’intenzionalità suicidaria superiore rispetto a tali interpretazioni.
Solo il 40-60% dei soggetti che giungono all’osservazione medica in seguito a un gesto parasuicidario risultano non avere una storia di tentativi precedenti. È stato osservato che i gesti parasuicidari ripetuti tendono a presentarsi in un periodo di tempo relativamente breve.
In entrambi i sessi, la ripetitività dei gesti parasuicidari tende a essere più frequente nei soggetti separati o divorziati, mentre si osserva un trend opposto in caso di soggetti coniugati.
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