Malattia diPARKINSON -Trattamento
L’obiettivo più importante del trattamento dei pazienti colpiti da malattia di Parkinson è il mantenimento della massima autonomia e della migliore qualità di vita. La scelta della terapia dipende dall’età del paziente e dal grado di incapacità presente. Per quanto riguarda il trattamento medico, vale la pena sottolineare che la terapia è molto complessa e che ciascun paziente rappresenta un caso a sé stante, con specifiche problematiche, per cui, pur considerando le indicazioni presenti nella letteratura scientifica, le scelte terapeutiche vanno fatte caso per caso. Il paziente, dal canto suo, deve impegnarsi a rispettare minuziosamente i dosaggi e gli orari di somministrazione dei farmaci e a seguire le indicazioni dello specialista.
Levodopa (L-dopa) La levodopa, il più efficace farmaco disponibile per i sintomi quali bradicinesia e rigidità, viene assunta per via orale e rapidamente assorbita a livello digiuno duodenale, previo svuotamento gastrico. Nonostante la risposta al trattamento con levodopa sia stabile e soddisfacente nei primi 2-5 anni, circa la metà dei pazienti tende a sviluppare nel tempo delle complicazioni del movimento dovute proprio alla terapia: fluttuazioni motorie con alternanza di periodi di risposta al farmaco (con buona mobilità) e periodi di risposta ridotta o inefficace (e ricomparsa dei sintomi parkinsoniani), con diverse caratteristiche di prevedibilità e rapidità di insorgenza. Frequentemente, in fase avanzata di malattia, i pazienti con risposta complicata alla terapia possono accusare un ritardo nella risposta a una certa dose di L-dopa o anche un’assenza di risposta. Più recentemente, sono state messe a punto diverse strategie per migliorare la resa della terapia, tra cui le preparazioni orali di L-dopa a lento rilascio, che consentono un miglioramento delle fluttuazioni motorie, e la somministrazione duodenale, che permette di superare, mediante l’infusione di una formulazione in gel, il passaggio attraverso lo stomaco, garantendo un migliore assorbimento del farmaco e una sua azione continua a livello del sistema nervoso centrale.
Inibitori della levodopa decarbossilasi (carbidopa, benserazide) L’impiego di questi farmaci aumenta l’efficacia e la maneggevolezza di impiego della levodopa nella malattia di Parkinson.
Inibitori delle Catecol-O-metil transferasi (entacapone, tolcapone) Sono farmaci che aumentano la biodisponibilità e la durata di azione della levodopa, mantenendone più stabili i livelli nel sangue e permettendone una riduzione della dose quotidiana fino al 30% circa. Il loro uso è associato però a un incremento di disturbi (discinesie e problemi psichiatrici), che possono comparire sin dai primi giorni di trattamento.
Agonisti dopaminergici Questa classe di farmaci è stata introdotta inizialmente per il trattamento della malattia di Parkinson avanzata come aggiunta o come sostituzione parziale della levodopa, al fine di ridurne gli effetti collaterali. Più recentemente alcuni di questi farmaci sono stati sperimentati – e si sono rivelati efficaci – come terapia iniziale alternativa alla levodopa al fine di ridurne gli effetti collaterali (discinesie e fluttuazioni motorie) che si avrebbero quando tale sostanza viene impiegata da sola. Rientrano tra gli agonisti dopaminergici bromocriptina, lisuride, pergolide mesilato, pramipexolo, ropirinolo, cabergolina, apomorfina. Alcuni di questi farmaci espongono al rischio di fibrosi retroperitoneale e pleuropolmonare nel trattamento cronico. I pazienti in trattamento con questi farmaci sono soggetti al rischio di sviluppare problemi a livello delle valvole del cuore. Per questo motivo in Italia l’utilizzo di cabergolina e pergolide richiede attenzione e un attento controllo dei parametri di funzione cardiaca mediante ecocardiogramma. Nel caso in cui vi siano segni di rigurgito anche in una sola valvola cardiaca, occorre sospendere immediatamente il trattamento. L’apomorfina si distingue dagli altri farmaci di questo gruppo perché viene somministrata per via sottocutanea, mediante infusioni continue o intermittenti, e si è dimostrata efficace nel migliorare il controllo dei sintomi del Parkinson. Tra gli effetti collaterali si annoverano però nausea, vomito, ipotensione ortostatica, sonnolenza, sogni vividi e allucinazioni. Alcuni di questi (nausea, vomito) sono controllati mediante assunzione di domperidone.
Amantadina Questo farmaco, utilizzato originariamente come farmaco antivirale, si è dimostrato efficace nel migliorare gli effetti collaterali (discinesie) da levodopa. Gli effetti collaterali più frequenti sono: livaedo reticularis, edema agli arti inferiori, insonnia, bocca secca, stati confusionali con allucinazioni visive.
Inibitori delle monoamino-ossidasi B (selegilina; rasagilina) La selegilina, se usata in combinazione con la levodopa, può aumentare l’efficacia del trattamento e ridurre la dose necessaria di levodopa fino al 25%; è dotata di un minimo effetto antiparkinsoniano che potrebbe ritardare la necessità di assumere la levodopa. La selegelina ha come effetti collaterali insonnia, confusione, allucinazioni, ipotensione ortostatica. La rasagilina viene utilizzata in alcuni tipi di pazienti, in associazione con levodopa o in monoterapia. Il suo impiego in caso di trattamento con antidepressivi dovrebbe essere evitato, a causa delle gravi reazioni avverse che ne possono derivare.
Anticolinergici (biperidene, metixene, triesifenidile, prociclidina, orfenadrina, bornaprina) Questi farmaci sono efficaci su tremore, rigidità e scialorrea, ma sono poco utilizzati per gli effetti avversi sul piano cognitivo.
Trattamento chirurgico
Il problema chirurgico si pone quando compaiono i sintomi della fase scompensata di malattia (oscillazioni motorie, ipercinesie ecc.). In passato sono stati effettuati numerosi interventi ma solo l’introduzione della tecnica stereotassica ha reso la chirurgia di questa malattia più precisa e meno destruente. In casi molto selezionati, in cui non sia possibile controllare adeguatamente né la malattia né gli effetti collaterali dei farmaci impiegati, si ricorre a interventi chirurgici finalizzati a realizzare una stimolazione cerebrale profonda di due aree cerebrali coinvolte in maniera particolare dalla malattia di Parkinson (globo pallido interno e nucleo subtalamico). I risultati molto positivi ottenuti hanno incoraggiato l’adozione di questa modalità di trattamento in pazienti affetti da malattia di Parkinson avanzata, in cui diventa possibile inibire il tremore a riposo, la bradicinesia e la rigidità. Le complicanze possono essere dovute alla procedura chirurgica e al sistema di stimolazione; la più grave è rappresentata dall’emorragia o dall’ischemia cerebrale, con possibilità di danni neurologici permanenti. I limiti di questa terapia sono dati dalla maggior incidenza di eventi avversi rispetto alla terapia farmacologica per questo è fondamentale che lo specialista selezioni soltanto quei pazienti che possono trarne il massimo beneficio in cambio di una minima quota di effetti collaterali. Recentemente un’altra tecnica (neurostimolazione del peduncolo pontino) si è rivelata efficace sui disturbi della marcia e della postura e sembra poter essere associata alla stimolazione subtalamica: una nuova possibilità che peraltro necessita di ulteriori valutazioni.
[M.R., G.G.]
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