Malaria -La malaria, una storia molto lunga
La malaria è nota da oltre 4000 anni e da sempre ha condizionato le attività umane, determinando per certi versi la stessa storia dell’umanità: è menzionata infatti in manoscritti antichi dei popoli Cinesi, Indiani, Egizi, Romani. I suoi sintomi erano già riportati negli antichi scritti cinesi del Nei Ching, il canone cinese di medicina risalente al 2700 a.C. Testi sumerici ed egizi, 3500-4000 anni fa, riportano casi di febbre e ingrandimento della milza (splenomegalia) ed epidemie di febbre mortale, mentre nell’antica Grecia la malattia, ben conosciuta, fu descritta da Ippocrate con la distinzione tra febbri intermittenti, terzane e quartane.
Anche la relazione tra malattia, ambiente e insetti è stata oggetto di speculazioni fin dall’antichità. Il nome stesso, utilizzato anche in lingua inglese, deriva da “mal’aria”, in quanto da sempre la presenza della malattia è stata associata alle condizioni dell’ambiente e alla presenza degli insetti: per esempio, nel trattato sanscrito di medicina (il Susruta), la malaria veniva attribuita alla puntura di insetti.
Nell’antica Roma la malattia era associata alle paludi e perciò era chiamata febbre palustre (analogamente, il francese usa il termine paludisme). Marco Terenzio Varo, nel De re rustica, segnala il pericolo che deriva dal vivere nei pressi delle paludi; Giovanni Maria Lancisi nel 1717 pubblicò un trattato sulle febbri palustri segnalando come queste siano la conseguenza di un veleno trasmesso dagli insetti.
Sono tante le personalità del mondo dell’arte e della politica che sono decedute per la malattia (Dante, Cromwell, Lord Byron, i papi Leone X e Sisto V, Carlo V e altri ancora), o che hanno sofferto attacchi di malaria (Washington, Monroe, Jackson, Grant, Lincoln, Roosevelt, Kennedy, Cristoforo Colombo, Cesare Borgia, Nelson, Mahatma Gandhi, Trotsky, Hemingway, Ho Chi Minh e tanti altri).
La scoperta del plasmodio si deve a Laveran, medico dell’armata francese che per primo, nel 1880, riconobbe i parassiti nel sangue di un paziente a Constantine, in Algeria.
Molti studiosi italiani hanno legato il proprio nome a importantissime scoperte in questo campo: Marchiafava e Celli approfondirono le osservazioni di Laveran, descrissero gli stadi di sviluppo del parassita nell’uomo e diedero il nome di Plasmodium al protozoo; Golgi negli anni 1895-96 dimostrò la relazione tra il ciclico sviluppo del plasmodio nel sangue e le caratteristiche periodiche successioni di febbri parossistiche, deducendo che la malaria terzana e quartana dovevano avere due cause distinte. Ancora a Marchiafava, Bignami, Bastianelli e Celli si deve la scoperta del Plasmodium falciparum. Le scoperte sulle modalità di trasmissione del parassita videro gli scienziati italiani in primo piano; accanto a Patrick Manson (il padre della medicina tropicale) e a Ronald Ross, che nel 1898 documentò la trasmissione da parte delle zanzare Culex della malaria aviaria, nello stesso anno Giovanni Battista Grassi, Amico Bignami e Giuseppe Bastianelli dimostrarono lo specifico ruolo della zanzara Anopheles come vettore della trasmissione e descrissero il ciclo della malattia umana.
Anche i tentativi di cura risalgono a tempi antichi. Nel 340 le proprietà antifebbrili della pianta del Qinghao (Artemisia annua) furono descritte da Ge Hong, un ufficiale della dinastia Yin dell’Est. Il principio attivo, l’artemesinina, venne identificato soltanto nel 1971 in Cina; nel 1979 vennero pubblicati i risultati delle prime sperimentazione nell’uomo e da allora sono stati estratti molti derivati, che costituiscono oggi la più efficace arma nella cura della malattia.
Leggendaria è invece la scoperta dell’altro rimedio fondamentale per la cura della malaria, il chinino. Si sa che, nel corso del XVII secolo, i nativi peruviani fecero conoscere ai coloni spagnoli e in particolare ai missionari gesuiti l’uso della corteccia dell’albero della Chincona come rimedio per le febbri: il primo scritto che ne indica le virtù curative risale infatti al 1630. Secondo una leggenda, fu con questa corteccia che venne curata la Contessa di Chincòn e moglie del vicerè del Perù, Señora Ana de Osorio, per questo la corteccia venne chiamata corteccia del Perù e l’albero Cinchona (Cinchona officinalis). In Europa i primi a studiare e utilizzare l’estratto della corteccia furono i gesuiti e in particolare Barnabé de Cobo, che la portò in Europa nel 1632, e Juan de Lugo, che per primo ne utilizzò la tintura.
La sostanza attiva, il chinino, venne estratta dai farmacisti francesi Pelletier e Caventou nel 1817; i due studiosi rifiutarono compensi e, invece di brevettare la loro scoperta, pubblicarono il processo di estrazione in modo che chiunque potesse prepararlo. Il chinino è stato per molti anni ed è tuttora uno dei più efficaci rimedi contro la malattia.
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