Accanimento Terapeutico -Cosa dice la legge italiana
Accanimento terapeutico e comportamento omissivo (cioè abbandono del malato) sono i due atteggiamenti estremi, ma di fatto non sono sempre così facili da distinguere e preoccupano i medici italiani quando si trovano a dover curare malati in fase terminale, pazienti in stato di coma persistente o con malattie così gravi che necessitano comunque di assistenza continua e supporti vitali (alimentazione e idratazione artificiale, respirazione con apparecchiature meccaniche).
Da un lato il Codice penale, all’art. 40, recita: «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». Il medico, indubbiamente, nell’ambito di un rapporto terapeutico, è investito di una posizione di garanzia verso il soggetto debole (malato): ciò significa che ha l’obbligo di fare tutto ciò che è in suo potere per ripristinare lo stato di salute del paziente o per evitare danni ulteriori e, quando tale evento non sia possibile, è tenuto a fare tutto ciò che è in suo potere per evitare o comunque ritardare l’esito finale verso la morte. D’altra parte l’art. 32 della Costituzione, 2° comma, prevede che un trattamento sanitario possa essere “imposto” solo in via eccezionale, con l’obbligo della riserva di legge e con il limite assoluto del rispetto della persona umana. Rispetto della persona che deve leggersi, appunto, nel senso di rispetto della sua dignità.
Il vero problema è proprio individuare quali sono i limiti dell’obbligo legati ai due articoli. Afferma la professoressa Elisabetta Palermo Fabris, docente di diritto penale all’Università di Padova: «nel settore dei trattamenti sanitari il sistema penale deve far propri i principi elaborati dalla deontologia e dall’etica, soprattutto quando si sono tradotti in imperativi universalmente accettati e fatti propri da una determinata categoria professionale».
La bioetica ha imposto alla medicina una nuova concezione del rapporto medico-paziente, basata anche sulla rivalutazione del “principio di autonomia”, secondo il quale qualsiasi trattamento terapeutico non deve essere posto in essere senza il consenso del paziente, poiché egli ha diritto di dissentire e, di fronte a tale dissenso, il medico non è autorizzato a usare metodi impositivi o straordinari per costringerlo alla cura. La proposta terapeutica deve seguire il normale criterio di “appropriatezza clinica”, intesa in questo caso come valutazione del bilancio tra sofferenze per il paziente, ragionevoli guadagni in quantità di vita e/o miglioramento della qualità di vita. Astenersi da una proposta terapeutica non appropriata in questo caso non significa causare la morte, ma riconoscere che ogni terapia contro la malattia è diventata inutile o futile, cioè incapace di far raggiungere l’obiettivo prefissato di cura (qualità-quantità di vita).
Astenersi significa prendere atto dei limiti della medicina stessa, della naturale fragilità dell’uomo e del processo naturale (il morire) che investe ogni essere vivente. Per contro, l’astensione dalla terapia “attiva” non vuol dire abbandono del malato, ma affidamento a cure efficaci ed efficienti, note come cure palliative. Nel caso della fase terminale, a chi spetta decidere che non si tratta più di terapia ma di accanimento terapeutico? La responsabilità di questa decisione è dei medici curanti, ma in accordo con il paziente, unico soggetto che può giudicare la “proporzione” delle cure. Qualora il paziente sia incapace e privo di un rappresentante legale, la decisione spetta al medico curante anche se, afferma la professoressa Elisabetta Palermo Fabris, «non può essere sottovalutato il ruolo che i parenti, riconosciuti come protettori naturali del paziente, possono assumere per facilitare la decisione, tenendo conto della realtà del singolo paziente, così come richiesto dai principi di buona pratica clinica. Si afferma frequentemente, invece, che il parente non ha voce in quanto o è il soggetto portatore del bene capace di autodeterminarsi a porre il limite all’agire del medico, oppure, in caso di incapacità del paziente, è il medico che deve decidere da solo. L’assunto non è condivisibile dal momento che l’ordinamento giuridico investe i parenti di un obbligo di solidarietà e di cura nei confronti del congiunto in situazione di incapacità». Resta il fatto che la soluzione del problema è ancora tutta da costruire nel caso in cui il dubbio di accanimento terapeutico si configuri in soggetti che siano ancora lontani dalla fase terminale, in condizioni di estrema fragilità psicofisica, o addirittura in cui tale dubbio investa l’interruzione di processi di sostegno alla vita.
A titolo esemplificativo, è utile riportare di seguito l’ordinanza del Tribunale di Roma emessa in occasione del rigetto del ricorso di Welby contro un medico e un’associazione Onlus, inteso a ottenere l’imposizione a procedere al distacco del ventilatore artificiale, con la contemporanea somministrazione di terapie sedative: «l’accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona. [...] Sul piano dell’attuazione pratica il corrispondente diritto del paziente a “esigere” e “pretendere” che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita […] lascia il posto all’interpretazione soggettiva e alla discrezionalità nella definizione di concetti sì di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo tra tutti la dignità della persona), ma che sono indeterminati e appartengono a un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento dei giudici, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all’analogia o ai principi generali dell’ordinamento.» Il 20 dicembre 2006, il Consiglio superiore di sanità ha ritenuto che il signor Piergiorgio Welby non fosse sottoposto ad accanimento terapeutico in base alla seguente premessa che riguarda l’accezione più accreditata di accanimento terapeutico, per cui «…tale accezione non si fonda su elementi clinici e scientifici rigorosamente oggettivi, né sull’evidenza codificata di netti limiti di demarcazione tra ciò che è sicuramente auspicabile e vantaggioso per il paziente e ciò che sicuramente non lo è».
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