Accanimento Terapeutico -Cosa dice il Codice deontologico dei medici
La pratica medico-chirurgica è guidata da norme che costituiscono nel loro insieme il Codice di deontologia di questa professione. Si tratta di norme soggette a variazioni in ragione anche dei cambiamenti legislativi italiani e, in questi ultimi decenni, vi sono state più revisioni di quelle effettuate negli ultimi cento anni (l’ultima revisione è del 16 dicembre 2006). A ogni medico è fatto obbligo di attenersi a queste regole, pena l’incorrere in sanzioni che possono arrivare fino alla radiazione dall’Albo dei medici, con conseguente impossibilità a esercitare la professione. L’articolo 16, revisione dell’art.14 del precedente Codice del 1998, afferma in merito all’accanimento terapeutico: «il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’o-stinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita». La norma può prestarsi a interpretazioni estensive che certamente non erano nelle intenzioni di chi ha redatto il Codice.
Queste in sintesi le principali criticità: il mancato riferimento alla fase terminale della vita, l’affermazione troppo generica riguardo alla salute del malato, il riferimento alla qualità di vita come criterio sufficiente per astenersi dalle cure al malato. La preoccupazione maggiore porta a considerare tutte le situazioni: disabilità gravi, malati in stato comatoso irreversibile, malati che necessitano di assistenza continua senza la quale andrebbero incontro a morte certa. Attualmente, la società in cui viviamo, a prezzo di un grande impegno di risorse economiche e umane, permette la sopravvivenza di queste persone, anche se nessuna terapia di fatto è in grado di incidere sul loro stato di salute e sulla loro qualità di vita. Questa assistenza può essere considerata accanimento terapeutico? La qualità di vita, a cui fa riferimento la norma, è un dato assolutamente soggettivo per cui, se il malato è “competente” (ossia se è in grado di esprimere la sua volontà) può essere che egli deliberatamente consideri accanimento terapeutico (cioè ostacolo alla sua concezione di qualità di vita) i trattamenti di sostegno vitale che gli vengono proposti o praticati e che quindi ne chieda esplicitamente l’interruzione. Nel caso del malato “non competente”, o ritenuto tale, qualcuno al suo posto potrebbe decidere che quella vita, che “manca di qualità”, debba essere interrotta.
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