Accanimento Terapeutico -Le definizioni
Già Pio XII, nel 1957, si era espresso in modo esplicito in merito all’accanimento terapeutico e aveva affermato che esiste il dovere di «adottare le cure necessarie per conservare la vita e la salute… Ma esso non obbliga, generalmente, che all’impiego dei mezzi ordinari (secondo le circostanze di persone, di luoghi, di tempo e di cultura), ossia di quei mezzi che non impongono un onere straordinario per se stessi e per gli altri».
Un primo elemento, quindi, che può costituire parte dei criteri per definire l’accanimento è il ricorso a “mezzi straordinari”.
Altre definizioni sottolineano la documentata inefficacia del trattamento in relazione all’obiettivo da raggiungere (donare all’ammalato quantità e qualità di vita) e, in aggiunta, la sua possibile gravosità per il paziente. Altri ancora pongono l’accento sulla caratteristica ostinazione a perseguire risultati parziali a scapito del bene complessivo del malato.
Abel, nel Nuovo dizionario di bioetica, traduce il termine accanimento terapeutico, anche se ormai reso popolare dai mass-media, con il termine distanasia (parola che deriva dal greco antico e che può tradursi in “morte difficile, travagliata”) per mettere in risalto l’utilizzo di trattamenti che hanno solo lo scopo di prolungare la vita biologica del paziente. Il termine accanimento ha in sé una connotazione negativa (causare danno in modo intenzionale) e ciò non sempre risponde al vero, poiché molti medici pensano di agire per il bene del paziente. La Commissione giustizia del Senato della Repubblica italiana ha recentemente definito l’accanimento terapeutico come «ogni trattamento praticato senza alcuna ragionevole possibilità di un vitale recupero organico funzionale».
Una definizione che tiene conto di molti degli elementi succitati afferma che l’accanimento terapeutico è «l’ostinazione in trattamenti futili, da cui cioè non si possa ragionevolmente attendere un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita, oppure un trattamento i cui possibili benefici non siano proporzionati alla gravosità dei mezzi utilizzati specie quando tali mezzi siano straordinari» (Proposta di linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica, Università Cattolica, Roma, 2006). Quest’ultima definizione contribuisce a completare i criteri che consentono di definire il termine proporzione inteso come relazione tra cura e obiettivo della cura. Accanimento terapeutico e proporzionalità-sproporzionalità di cura, secondo alcuni autori, sono sostanzialmente equivalenti.
Sebbene i concetti espressi siano abbastanza semplici, in realtà, quando si tratta di prendere una decisione operativa nella pratica clinica, ossia di fronte a un malato, le difficoltà sono enormi. Due i principali nodi critici che accendono i dibattiti e dividono le opinioni.
1. Non tutte le definizioni delimitano l’accanimento terapeutico ai casi di malati in cui la morte è imminente. Ciò può essere origine di pericolose derive verso l’eutanasia, soprattutto se vengono inclusi i malati gravemente disabili, suscettibili solo di trattamenti di sostegno vitale, mentre tutti gli altri provvedimenti terapeutici possono essere interpretati come accanimento in quanto, di fatto, possono essere considerati «trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità di vita» (Codice deontologico dei medici, 2007).
2. Le definizioni non chiariscono se i supporti vitali (alimentazione, idratazione, respirazione), anche realizzati con mezzi artificiali, debbano essere considerati alla stregua di una qualsiasi terapia (che è quindi lecito eliminare) oppure se debbano in ogni caso essere salvaguardati quando sono determinanti per il prosieguo della vita del malato.
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