Protesi articolari -Materiali
Il materiale utilizzato nella costruzione del manufatto protesico può essere metallico e non metallico.
Tra i primi vi sono l’acciaio (leghe di cobalto, cromo e molibdeno) e il titanio (sempre più diffuso, anche perché utilizzabile in chi presenta allergia ai metalli), in minor grado il tantalio e l’oxinium, ancora molto costosi, ma in crescente sviluppo di studio ed utilizzo. Per ottenere un migliore aderenza all’osso le superfici possono essere trattate con tecniche particolari, fra le quali l’applicazione di uno spray di idrossiapatite, costituito da una struttura simile alla componente non cellulare dell’osso.
Tra i non metallici vi sono la ceramica e il polietilene (struttura plastica ad alta resistenza).
Questi materiali sono quelli che al momento garantiscono la migliore capacità di integrazione con l’osso del ricevente ed in particolare i migliori coefficienti di attrito nelle parti in cui le componenti protesiche sono sottoposte a movimento fra di loro. Quest’ultimo aspetto costituisce un problema rilevante, in quanto l’usura cui sono sottoposti i materiali destinati a frizione possono determinare la formazione di detriti, che, seppure microscopici, possono scatenare anomale reazioni infiammatorie, i cui effetti arrivano a causare riassorbimento dell’osso e quindi lo scollamento delle protesi, in pratica uno dei motivi di fallimento (soprattutto con i materiali usati negli anni passati) degli impianti protesici dopo pochi anni dall’intervento.
Le protesi possono essere totali quando sostituiscono entrambi i versanti dell’articolazione, o parziali se si sostituisce una sola parte ossea, (ad esempio nelle fratture del collo del femore, quando o per l’età molto avanzata o per il modesto livello di artrosi non è necessario protesizzare anche il bacino,cioè l’acetabolo, oppure nelle fratture della testa omerale). Possono interessare solo una parte della superficie ossea, ad es. metà del ginocchio come nelle protesi mono compartimentali. Possono essere applicate direttamente a contatto dell’osso, opportunamente preparato, con forza e in compressione (press fit), eventualmente con l’aggiunta di viti, fino ad ottenere una completa stabilità meccanica, che è alla base di una tecnica corretta ed il primo presupposto per la sopravvivenza a distanza dell’impianto. Quando invece la qualità dell’osso non appare soddisfacente, come nelle osteoporosi importanti, nelle malattie di base, nell’età molto avanzata, si preferisce fissare la protesi con il cemento, materiale acrilico, con alte capacità di resistenza ed adesione a protesi ed osso. L’uso del cemento risulta variabile nelle diverse realtà: in Europa si tende percentualmente a preferire gli impianti senza cemento, negli Stati Uniti avviene il contrario. La scelta del tipo di materiale e di fissazione è ovviamente del chirurgo, che comunque deve spiegare con chiarezza al paziente le diverse opportunità ed eventualmente concordare altre soluzioni. La tendenza attuale consiste nell’utilizzo di protesi che richiedano la minor quantità di osso asportato e che arrivino a sostituire solo la parte usurata (ad esempio le protesi di superficie). Il motivo è dato dalla probabilità che dopo un certo numero di anni può essere necessario sostituire la protesi, con un intervento spesso complesso e nel quale risulta fondamentale poter lavorare sulla maggiore quantità di osso possibile a disposizione. La sopravvivenza di un impianto protesico è un elemento non quantificabile con certezza, ma che si basa sulle esperienze maturate sui controlli condotti sugli impianti effettuati, e con studi che consentono la verifica di quelli più longevi, su cui ideare nuovi modelli e materiali. In assenza delle complicazioni già descritte e che purtroppo possono richiedere interventi di rimozione e sostituzione dopo pochi mesi o anni, per altro percentualmente molto limitate, gli anni di sopravvivenza variano a seconda delle articolazioni interessate, e comunque con livelli molto soddisfacenti. Se infatti consideriamo l’anca, i tempi considerati sono in media circa dieci anni, ma in realtà le verifiche in atto dimostrano come nei modelli più utilizzati si osservano interessanti percentuali di sopravvivenza a venti anni, e si pensa con ragione che i modelli di ultima generazione possano ottenere risultati almeno analoghi. Per questi motivi dunque, al momento di scegliere un tipo di protesi, il chirurgo valuterà in ragione di quanto ha a disposizione e della propria esperienza, informando il paziente delle nuove tecniche, ma anche e soprattutto dei risultati già consolidati e di per sé molto soddisfacenti con i materiali fino ad ora utilizzati. L’età del paziente è un elemento dirimente, sia per le tecniche che per i materiali, in quanto nel giovane si prevede una richiesta funzionale più importante e si dovranno privilegiare i materiali che consentano la miglior funzione con la più estesa sopravvivenza.
A questo proposito la chirurgia protesica dell’anca ha raggiunto una tale affidabilità per cui è molto frequente il ritorno all’attività sportiva ad un certo livello, (magari non agonistico), come sci, tennis, arrampicata e altro. La protesi totale di ginocchio invece non consente analoghe prestazioni (almeno non sono consigliate, se non bicicletta, golf, nuoto), tranne che per quella mono compartimentale che in effetti permette un discreto ritorno ad attività di un certo impegno.
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