Accanimento Terapeutico

Quando nel 1970 Van Rensselaer Potter scrisse il suo primo articolo dal titolo Bioethics: The Science of Survival (Bioetica: la scienza della sopravvivenza), si cominciò a discutere con qualche preoccupazione sulle considerazioni che l’autore aveva posto a fondamento della sua tesi: non “tutto ciò che è possibile” all’uomo, nel campo della scienza e quindi anche […]



Quando nel 1970 Van Rensselaer Potter scrisse il suo primo articolo dal titolo Bioethics: The Science of Survival (Bioetica: la scienza della sopravvivenza), si cominciò a discutere con qualche preoccupazione sulle considerazioni che l’autore aveva posto a fondamento della sua tesi: non “tutto ciò che è possibile” all’uomo, nel campo della scienza e quindi anche della medicina, può ritenersi “di per sé” lecito. Potter coniò il neologismo “bioetica” per intendere “l’etica che riguarda gli esseri viventi”. Egli di fatto non scoprì nuovi valori a cui l’uomo avrebbe potuto fare riferimento (i contenuti della bioetica sono infatti molto antichi e fanno parte della storia), ma ebbe il merito di promuovere la discussione, rendere espliciti alcuni orientamenti e proporre un ambito di ricerca che negli anni avrebbe assunto un significato sempre maggiore non solo per alcuni professionisti (operatori della salute) ma per l’intera società. Tuttavia, c’è ancora molta confusione nell’ambito della bioetica, a cominciare dalla difficoltà di distinguere il piano etico delle discussioni da quello deontologico (che fa riferimento alle regole del codice di deontologia medica) e da quello giuridico (che fa riferimento alle leggi che la società impone di osservare).


La medicina e le malattie inguaribili

Una delle cause di tensione, provocata soprattutto dal progresso tecnologico della medicina, è data dalla possibilità di prolungare nel tempo la durata di malattie irreversibili, destinate comunque a concludersi con la morte del malato, spesso con grande dolore e con grave impegno in termini di assistenza per i familiari e per il personale. Il prolungamento del processo del morire non sempre e non immediatamente appare vantaggioso per la persona malata, anzi, alcune volte può sembrare un vero e proprio inutile prolungamento della sofferenza ed è in riferimento a questa situazione che viene utilizzato il termine “accanimento terapeutico”. Se il rifiuto dell’accanimento terapeutico è ormai unanimemente accettato e condiviso, non è così facile trovare l’accordo su ciò che lo definisce e non è affatto raro rilevare, a fronte di specifiche situazioni, posizioni diametralmente opposte. Il caso italiano relativo al signor Piergiorgio Welby ha di fatto generato due correnti opposte di pensiero. Alcuni hanno sostenuto che continuare la respirazione artificiale a fronte di un’esplicito rifiuto da parte del paziente configurasse accanimento mentre altri, al contrario, hanno interpretato l’azione di distacco del respiratore come vera e propria eutanasia.


Le definizioni

Già Pio XII, nel 1957, si era espresso in modo esplicito in merito all’accanimento terapeutico e aveva affermato che esiste il dovere di «adottare le cure necessarie per conservare la vita e la salute… Ma esso non obbliga, generalmente, che all’impiego dei mezzi ordinari (secondo le circostanze di persone, di luoghi, di tempo e di cultura), ossia di quei mezzi che non impongono un onere straordinario per se stessi e per gli altri».

Un primo elemento, quindi, che può costituire parte dei criteri per definire l’accanimento è il ricorso a “mezzi straordinari”.

Altre definizioni sottolineano la documentata inefficacia del trattamento in relazione all’obiettivo da raggiungere (donare all’ammalato quantità e qualità di vita) e, in aggiunta, la sua possibile gravosità per il paziente. Altri ancora pongono l’accento sulla caratteristica ostinazione a perseguire risultati parziali a scapito del bene complessivo del malato.

Abel, nel Nuovo dizionario di bioetica, traduce il termine accanimento terapeutico, anche se ormai reso popolare dai mass-media, con il termine distanasia (parola che deriva dal greco antico e che può tradursi in “morte difficile, travagliata”) per mettere in risalto l’utilizzo di trattamenti che hanno solo lo scopo di prolungare la vita biologica del paziente. Il termine accanimento ha in sé una connotazione negativa (causare danno in modo intenzionale) e ciò non sempre risponde al vero, poiché molti medici pensano di agire per il bene del paziente. La Commissione giustizia del Senato della Repubblica italiana ha recentemente definito l’accanimento terapeutico come «ogni trattamento praticato senza alcuna ragionevole possibilità di un vitale recupero organico funzionale».

Una definizione che tiene conto di molti degli elementi succitati afferma che l’accanimento terapeutico è «l’ostinazione in trattamenti futili, da cui cioè non si possa ragionevolmente attendere un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita, oppure un trattamento i cui possibili benefici non siano proporzionati alla gravosità dei mezzi utilizzati specie quando tali mezzi siano straordinari» (Proposta di linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica, Università Cattolica, Roma, 2006). Quest’ultima definizione contribuisce a completare i criteri che consentono di definire il termine proporzione inteso come relazione tra cura e obiettivo della cura. Accanimento terapeutico e proporzionalità-sproporzionalità di cura, secondo alcuni autori, sono sostanzialmente equivalenti.

Sebbene i concetti espressi siano abbastanza semplici, in realtà, quando si tratta di prendere una decisione operativa nella pratica clinica, ossia di fronte a un malato, le difficoltà sono enormi. Due i principali nodi critici che accendono i dibattiti e dividono le opinioni.

1. Non tutte le definizioni delimitano l’accanimento terapeutico ai casi di malati in cui la morte è imminente. Ciò può essere origine di pericolose derive verso l’eutanasia, soprattutto se vengono inclusi i malati gravemente disabili, suscettibili solo di trattamenti di sostegno vitale, mentre tutti gli altri provvedimenti terapeutici possono essere interpretati come accanimento in quanto, di fatto, possono essere considerati «trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità di vita» (Codice deontologico dei medici, 2007).

2. Le definizioni non chiariscono se i supporti vitali (alimentazione, idratazione, respirazione), anche realizzati con mezzi artificiali, debbano essere considerati alla stregua di una qualsiasi terapia (che è quindi lecito eliminare) oppure se debbano in ogni caso essere salvaguardati quando sono determinanti per il prosieguo della vita del malato.


Cosa dice il Codice deontologico dei medici

La pratica medico-chirurgica è guidata da norme che costituiscono nel loro insieme il Codice di deontologia di questa professione. Si tratta di norme soggette a variazioni in ragione anche dei cambiamenti legislativi italiani e, in questi ultimi decenni, vi sono state più revisioni di quelle effettuate negli ultimi cento anni (l’ultima revisione è del 16 dicembre 2006). A ogni medico è fatto obbligo di attenersi a queste regole, pena l’incorrere in sanzioni che possono arrivare fino alla radiazione dall’Albo dei medici, con conseguente impossibilità a esercitare la professione. L’articolo 16, revisione dell’art.14 del precedente Codice del 1998, afferma in merito all’accanimento terapeutico: «il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’o-stinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita». La norma può prestarsi a interpretazioni estensive che certamente non erano nelle intenzioni di chi ha redatto il Codice.

Queste in sintesi le principali criticità: il mancato riferimento alla fase terminale della vita, l’affermazione troppo generica riguardo alla salute del malato, il riferimento alla qualità di vita come criterio sufficiente per astenersi dalle cure al malato. La preoccupazione maggiore porta a considerare tutte le situazioni: disabilità gravi, malati in stato comatoso irreversibile, malati che necessitano di assistenza continua senza la quale andrebbero incontro a morte certa. Attualmente, la società in cui viviamo, a prezzo di un grande impegno di risorse economiche e umane, permette la sopravvivenza di queste persone, anche se nessuna terapia di fatto è in grado di incidere sul loro stato di salute e sulla loro qualità di vita. Questa assistenza può essere considerata accanimento terapeutico? La qualità di vita, a cui fa riferimento la norma, è un dato assolutamente soggettivo per cui, se il malato è “competente” (ossia se è in grado di esprimere la sua volontà) può essere che egli deliberatamente consideri accanimento terapeutico (cioè ostacolo alla sua concezione di qualità di vita) i trattamenti di sostegno vitale che gli vengono proposti o praticati e che quindi ne chieda esplicitamente l’interruzione. Nel caso del malato “non competente”, o ritenuto tale, qualcuno al suo posto potrebbe decidere che quella vita, che “manca di qualità”, debba essere interrotta.


Cosa dice la legge italiana

Accanimento terapeutico e comportamento omissivo (cioè abbandono del malato) sono i due atteggiamenti estremi, ma di fatto non sono sempre così facili da distinguere e preoccupano i medici italiani quando si trovano a dover curare malati in fase terminale, pazienti in stato di coma persistente o con malattie così gravi che necessitano comunque di assistenza continua e supporti vitali (alimentazione e idratazione artificiale, respirazione con apparecchiature meccaniche).

Da un lato il Codice penale, all’art. 40, recita: «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». Il medico, indubbiamente, nell’ambito di un rapporto terapeutico, è investito di una posizione di garanzia verso il soggetto debole (malato): ciò significa che ha l’obbligo di fare tutto ciò che è in suo potere per ripristinare lo stato di salute del paziente o per evitare danni ulteriori e, quando tale evento non sia possibile, è tenuto a fare tutto ciò che è in suo potere per evitare o comunque ritardare l’esito finale verso la morte. D’altra parte l’art. 32 della Costituzione, 2° comma, prevede che un trattamento sanitario possa essere “imposto” solo in via eccezionale, con l’obbligo della riserva di legge e con il limite assoluto del rispetto della persona umana. Rispetto della persona che deve leggersi, appunto, nel senso di rispetto della sua dignità.

Il vero problema è proprio individuare quali sono i limiti dell’obbligo legati ai due articoli. Afferma la professoressa Elisabetta Palermo Fabris, docente di diritto penale all’Università di Padova: «nel settore dei trattamenti sanitari il sistema penale deve far propri i principi elaborati dalla deontologia e dall’etica, soprattutto quando si sono tradotti in imperativi universalmente accettati e fatti propri da una determinata categoria professionale».

La bioetica ha imposto alla medicina una nuova concezione del rapporto medico-paziente, basata anche sulla rivalutazione del “principio di autonomia”, secondo il quale qualsiasi trattamento terapeutico non deve essere posto in essere senza il consenso del paziente, poiché egli ha diritto di dissentire e, di fronte a tale dissenso, il medico non è autorizzato a usare metodi impositivi o straordinari per costringerlo alla cura. La proposta terapeutica deve seguire il normale criterio di “appropriatezza clinica”, intesa in questo caso come valutazione del bilancio tra sofferenze per il paziente, ragionevoli guadagni in quantità di vita e/o miglioramento della qualità di vita. Astenersi da una proposta terapeutica non appropriata in questo caso non significa causare la morte, ma riconoscere che ogni terapia contro la malattia è diventata inutile o futile, cioè incapace di far raggiungere l’obiettivo prefissato di cura (qualità-quantità di vita).

Astenersi significa prendere atto dei limiti della medicina stessa, della naturale fragilità dell’uomo e del processo naturale (il morire) che investe ogni essere vivente. Per contro, l’astensione dalla terapia “attiva” non vuol dire abbandono del malato, ma affidamento a cure efficaci ed efficienti, note come cure palliative. Nel caso della fase terminale, a chi spetta decidere che non si tratta più di terapia ma di accanimento terapeutico? La responsabilità di questa decisione è dei medici curanti, ma in accordo con il paziente, unico soggetto che può giudicare la “proporzione” delle cure. Qualora il paziente sia incapace e privo di un rappresentante legale, la decisione spetta al medico curante anche se, afferma la professoressa Elisabetta Palermo Fabris, «non può essere sottovalutato il ruolo che i parenti, riconosciuti come protettori naturali del paziente, possono assumere per facilitare la decisione, tenendo conto della realtà del singolo paziente, così come richiesto dai principi di buona pratica clinica. Si afferma frequentemente, invece, che il parente non ha voce in quanto o è il soggetto portatore del bene capace di autodeterminarsi a porre il limite all’agire del medico, oppure, in caso di incapacità del paziente, è il medico che deve decidere da solo. L’assunto non è condivisibile dal momento che l’ordinamento giuridico investe i parenti di un obbligo di solidarietà e di cura nei confronti del congiunto in situazione di incapacità». Resta il fatto che la soluzione del problema è ancora tutta da costruire nel caso in cui il dubbio di accanimento terapeutico si configuri in soggetti che siano ancora lontani dalla fase terminale, in condizioni di estrema fragilità psicofisica, o addirittura in cui tale dubbio investa l’interruzione di processi di sostegno alla vita.

A titolo esemplificativo, è utile riportare di seguito l’ordinanza del Tribunale di Roma emessa in occasione del rigetto del ricorso di Welby contro un medico e un’associazione Onlus, inteso a ottenere l’imposizione a procedere al distacco del ventilatore artificiale, con la contemporanea somministrazione di terapie sedative: «l’accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona. [...] Sul piano dell’attuazione pratica il corrispondente diritto del paziente a “esigere” e “pretendere” che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita […] lascia il posto all’interpretazione soggettiva e alla discrezionalità nella definizione di concetti sì di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo tra tutti la dignità della persona), ma che sono indeterminati e appartengono a un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento dei giudici, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all’analogia o ai principi generali dell’ordinamento.» Il 20 dicembre 2006, il Consiglio superiore di sanità ha ritenuto che il signor Piergiorgio Welby non fosse sottoposto ad accanimento terapeutico in base alla seguente premessa che riguarda l’accezione più accreditata di accanimento terapeutico, per cui «…tale accezione non si fonda su elementi clinici e scientifici rigorosamente oggettivi, né sull’evidenza codificata di netti limiti di demarcazione tra ciò che è sicuramente auspicabile e vantaggioso per il paziente e ciò che sicuramente non lo è».


Accanimento terapeutico, abbandono, eutanasia, cure palliative

Il professor Corrado Viafora, docente di bioetica all’Università di Padova, afferma che «rifiutare l’accanimento terapeutico senza sconfinare nell’abbandono è prima di tutto porsi la domanda: qual è il valore della vita in un malato in fase terminale?

La fase finale è una fase della vita in cui il malato si riduce a un residuo puramente materiale, da narcotizzare, da spegnere il più rapidamente possibile, oppure anche allora continua a essere una persona con le sue caratteristiche, la sua dignità, in grado di mantenere una relazione con ciò che lo circonda e decidere come dare un significato di compimento all’ultima parte della propria vita? Dalla prima risposta deriva la strategia della negazione e del controllo: proteggere ogni costo il malato terminale dalla consapevolezza della morte, concentrare ogni sforzo nella lotta contro la morte, sia attraverso il proposito di prolungare la vita a qualunque costo, sia attraverso il tentativo di anticipare la morte. Dalla seconda risposta deriva la strategia dell’accompagnamento: riconoscere i limiti della medicina decidendo di non proporre o di interrompere trattamenti sproporzionati, restare vicini al malato per dargli la possibilità di esprimere i suoi sentimenti, spostare l’obiettivo dello sforzo terapeutico, dal guarire al prendersi cura, orientando i trattamenti verso la cura dei sintomi e il sollievo dal dolore.» Le cure palliative rappresentano la concreta possibilità di aiutare il malato mettendo in pratica i principi della cosiddetta etica dell’accompagnamento, etica che si contrappone sia all’accanimento terapeutico sia all’eutanasia. [P.L.A.]