«I dati più recenti sulla celiachia registrano 182.858 pazienti celiaci, di cui ben 129.225 sono donne, colpite due volte di più rispetto agli uomini», annuncia Giuseppe Di Fabio presidente dell’Aic, Associazione italiana celiachia. «Si stima però che i celiaci in Italia siano in tutto 600mila e che oltre 400mila casi siano ancora da diagnosticare».
Un vero e proprio esercito, dunque, quello dei celiaci, nel nostro Paese e nel mondo. Che ha portato al moltiplicarsi delle ricerche per individuare i fattori che possono favorire la malattia e mettere a punto nuove strategie di diagnosi e cura. Ecco i risultati più interessanti.
Esiste una predisposizione genetica
«La celiachia è una malattia di tipo autoimmune», spiega la dottoressa Paoletta Preatoni, gastroenterologa dell’Istituto Humanitas. «Colpisce prevalentemente il piccolo intestino (il tenue), causando un’atrofia della mucosa intestinale in seguito all’ingestione di glutine, un complesso proteico presente nel grano e in altri cereali».
«L’intolleranza permanente al glutine causa la formazione di anticorpi antigliadina, sostanze che mantengono un’infiammazione cronica con conseguente riduzione della funzione di assorbimento degli alimenti da parte dell’intestino», aggiunge Pier Alberto Testoni, professore ordinario di gastroenterologia Università Vita-Salute San Raffaele (Milano) e Direttore dell’unità operativa complessa di gastroenterologia ed endoscopia digestiva Istituto Scientifico San Raffaele.
«È ormai assodato che esiste una predisposizione genetica alla malattia. Di recente, i ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche hanno effettuato studi per approfondire il tema. Le dottoresse Giovanna del Pozzo dell’Istituto di genetica e biofisica (Igb-Cnr) e Carmen Gianfrani dell’Istituto di biochimica delle proteine (Ibp-Cnr), hanno scoperto che nel 95% dei soggetti affetti da celiachia sono presenti alcuni specifici geni (del gruppo Hla) definiti di rischio o predisponenti la malattia».
Gli indiziati: lo stress, le farine e un virus
Altre ricerche hanno riscontrato che la malattia si manifesta più di frequente dopo una gravidanza, un intervento chirurgico o particolari situazioni di stress. Sono numerosi poi gli studi che mettono in relazione l’aumento dei casi di celiachia con un consumo eccessivo di cereali e con la grande diffusione delle cosiddette “farine di forza”, utilizzate nella panificazione per ottenere prodotti ben lievitati. In sostanza l’overdose di glutine cui siamo esposti mangiando spesso pane e pasta potrebbe favorire la comparsa del disturbo.
Ma le ipotesi più nuove suggeriscono che dietro la celiachia possa esserci un “reovirus”, un microrganismo che attacca il sistema gastrointestinale. A sostenere questa tesi sono due recenti studi pubblicati su Science, condotti sui topi dai ricercatori del Sainte-Justine Research Center di Montreal (Canada), l’Università di Pittsburgh (Usa) e l’Università di Chicago. Mostrano come il reovirus T1L scateni una reazione più violenta da parte dell’organismo quando l’infezione avviene in presenza di glutine o ovalbumina.
In altre parole, il reovirus induce il sistema immunitario a reagire al glutine come se questo fosse un agente patogeno pericoloso, anziché una proteina innocua. «Il microrganismo cambia il modo in cui il sistema immunitario vede il glutine», ha commentato la dottoressa Bana Jabri, dell’Università di Chicago. A tal proposito, anche il professor Testoni ritiene sia plausibile che un virus possa modificare la risposta immunitaria.
Il ruolo dei batteri “cattivi”
Un altro fattore che gioca un ruolo importante nel favorire la comparsa della celiachia è l’alterazione della flora batterica intestinale, il cosiddetto microbiota. Sono infatti diverse le ricerche che hanno indicato come i pazienti celiaci presentino un’elevata quantità di batteri “cattivi”.
Uno studio pubblicato sull’International Journal of Celiac Disease ha evidenziato, negli intolleranti, al glutine un aumento del livello di batteri Gram-negativi nocivi (Bacteroides, Prevotella, Escherichia coli), e un minor numero di batteri Gram-positivi (tra cui i protettivi lattobacilli e bifidobatteri) rispetto agli individui sani del gruppo di controllo.
Gli accertamenti in laboratorio sono indispensabili
Una diagnosi della celiachia sulla base dei sintomi non è facile, poiché spesso i disturbi sono troppo simili a quelli di altre malattie, per esempio la sindrome del colon irritabile.
L’elenco dei problemi scatenati dall’intolleranza al glutine è lunghissimo: inappetenza, diarrea cronica (con feci maleodoranti), pancia gonfia, dolori addominali, meteorismo, mal di stomaco, perdita di capelli, afte orali, anemia, debolezza muscolare, infiammazione della lingua... Questo genera spesso confusione. Secondo il recente studio Glutox, condotto dal dottor Luca Elli, responsabile del Centro per lo studio della celiachia, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, la maggioranza delle diagnosi di intolleranza al glutine sono errate perché non si fondano su accertamenti di laboratorio.
«Sulla base dell’anamnesi del paziente e dei suoi sintomi, il medico deve porre un “sospetto clinico”», sottolinea la dottoressa Preatoni. «Una volta che questo sia appurato, la diagnosi si fa in due step: una conferma sierologica per mezzo del dosaggio nel sangue di anticorpi specifici come gli anti-transglutaminasi, anti-endomisio e anti-gliadina. Una volta riscontrata la positività a questi anticorpi, la conferma definitiva di celiachia avviene attraverso la biopsia duodenale, un prelievo di un frammento di mucosa dell’intestino tenue che possa documentare l’atrofia dei villi intestinali a seguito di un esame istologico. Per accertare con sicurezza un’eventuale predisposizione genetica, invece, si può procedere con un’analisi del Dna alla ricerca di geni specifici come Hla-Dq2 e HlaA-Dq8».
La soluzione: escludere il glutine dalla dieta. Ma per tutta la vita
Oggi si può realmente parlare di cura della celiachia? Purtroppo no. «La terapia attuale è l’esclusione del glutine dalla dieta», spiega il dottor Marco Silano, primo ricercatore e direttore del Reparto di alimentazione, nutrizione e salute dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Questa misura dietetica va rispettata sempre, in modo che scompaiono i sintomi e l’infiammazione».
Non interrompere mai la dieta gluten free è fondamentale per evitare pesanti conseguenze sulla salute, avvertono gli esperti di Epicentro, il Portale dell’epidemiologia per la Sanità Pubblica dell’Istituto superiore della sanità.
«Se non trattata adeguatamente, la celiachia può portare allo sviluppo di altre malattie, in particolare di linfoma e adenocarcinoma, forme di cancro intestinale, osteoporosi, aborto e malformazioni congenite, bassa statura, convulsioni o attacchi epilettici».
La sfida in atto è trovare armi in grado di cancellare totalmente la malattia e i problemi che comporta. Anche perché per gli esperti del MassGeneral Hospital for Children di Boston, escludere il glutine non sempre basta. Così come suggerisce il loro studio pubblicato sul Journal of Pediatric Gastroenterology and Nutrition in cui si osserva come, anche dopo un anno di dieta priva di glutine, quasi il 20% dei bambini con diagnosi di celiachia sia soggetto a problemi intestinali.
Se non sei celiaco la dieta non serve. Anzi
Il mercato dei prodotti gluten-free ha registrato negli ultimi anni un altissimo incremento di vendite, che non è però proporzionale al numero di celiaci. È la moda della dieta senza glutine, seguita da molte persone nella convinzione che questa sostanza sia nociva o faccia ingrassare.
«La terapia senza glutine è una misura salvavita per i pazienti, ma non apporta alcun beneficio a chi non lo è», afferma il dottor Marco Silano, direttore del reparto di alimentazione, nutrizione e salute dell’Istituto superiore di Sanità. «Con gli alimenti gluten-free », commenta Norelle R. Reilly del New York Presbyterian Hospital, «si può aumentare l’assunzione di grassi e calorie, contribuire a carenze nutrizionali e complicare una diagnosi reale di celiachia».
I ricercatori di Harvard, inoltre, hanno rilevato che seguire una dieta gluten-free senza essere celiaci aumenta il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2.
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Articolo pubblicato sul n° 22 di Starbene in edicola dal 16 maggio 2017