Il Premio Nobel per la medicina 2020 è andato a Harvey Alter, Michael Houghton e Charles Rice, gli scopritori del virus dell’epatite C, nel 1989. Sono passati più di quarant’anni ma il loro lavoro ha prodotto enormi risultati per la salute delle persone.
«Prima della loro scoperta si conosceva solo l’epatite A e B, e quindi la maggior parte delle epatiti trasmesse con le trasfusioni rimanevano inspiegabili», commenta Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi del Gruppo San Donato. «Ancora oggi non abbiamo immagini del virus dell’epatite C ma solo un modello grafico basato sulla sua sequenza genomica scoperta dai tre scienziati».
Dato che il virus dell’epatite C si trasmette attraverso il sangue (in una minoranza dei casi con i rapporti sessuali: ci sono coppie dove un partner è positivo e non ha mai contagiato l’altro), la sua scoperta ha consentito di aggiungere il test a quelli che decretano se una sacca di sangue da donatore è sicura oppure no.
«Poiché l’epatite C raramente dà sintomi se non dopo anni, provocando la cirrosi epatica o il tumore al fegato, avere un test che si affianchi a quello delle transaminasi(che risulteranno alterate se c’è il virus dell’epatite C) è fondamentale», aggiunge il virologo. «Anche perché, se la malattia è curata nella sua fase iniziale, grazie agli antivirali a disposizione è possibile azzerare la carica del virus nel sangue e ottenere la guarigione. Purtroppo non esiste un vaccino ma le terapie moderne stanno portando a un’eradicazione della malattia, come sta avvenendo con la vaccinazione obbligatoria ai bambini per l’epatite B».
Pubblicato il 12 ottobre 2020
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