di Emanuela Vinci
La storia che ha visto come protagoniste la popstar Selena Gomez e la sua migliore amica, Francia Raisa Almendarez, che le ha donato il rene per poter consentire un trapianto, ha portato al centro dell’attenzione una malattia di cui tutti noi sappiamo poco: il lupus eritematoso sistemico (LES).
Cerchiamo di saperne di più con l’aiuto dei nostri esperti.
Perché colpisce le donne
Sono cinque milioni, secondo le stime diffuse sul proprio sito dalla Lupus Foundation of America, le persone al mondo colpite da una forma di lupus. In Italia più di 60mila. «È soprattutto una malattia delle donne», afferma il dottor Pier Luigi Meroni, Direttore del Dipartimento di Reumatologia dell’ASST Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico Gaetano Pini-CTO. La prevalenza è valutata da 28 a 50 ogni 100.000 abitanti, ma con un rapporto femmine/maschi di 9 a 1».
Perché colpisce soprattutto le donne? È una questione ormonale? «Questo è ancora da chiarire – spiega Guido Valesini, reumatologo e direttore del Lupus Clinic del Policlinico Umberto I di Roma, un Centro d'Eccellenza che garantisce tutte le necessarie competenze specialistiche - ma è stato appurato che i bambini si ammalano nella stessa percentuale tra maschi e femmine e solo dopo l’adolescenza, quando gli ormoni entrano in azione c’è un’impennata tra le ragazze».
Un errore del sistema immunitario
La malattia, la cui forma più comune è il lupus eritematoso sistemico, è cronica, di tipo autoimmune. «Il lupus eritematoso sistemico – spiega Meroni - è il prototipo di malattia autoimmune. È causato da un errore del sistema immunitario, che anziché limitarsi ad aggredire gli agenti patogeni, attacca anche i distretti dell’organismo».
In gioco anche fattori genetici
«Questa malattia è in parte determinata geneticamente e quindi ci può essere una predisposizione familiare, ma fino a un certo punto – chiarisce il dottor Valesini – tant’è vero che può capitare che di due gemelli identici si ammali solo uno dei due. Un altro fattore che può provocare l’insorgenza della malattia è l’esposizione al sole in soggetti predisposti».
Meno sale, meno infiammazione
E poi c’è il ruolo dell’alimentazione e in particolare del sale. Per capire se e come il sale contenuto nella dieta potesse avere effetti sulle malattie autoimmuni, i ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma hanno osservato cosa succedeva ad alcune cellule del sistema immunitario nei pazienti con artrite e lupus sottoposti a regime iposodico per tre settimane, e quindi normosodico per due settimane.
Analizzando le popolazioni linfocitarie dei pazienti che avevano seguito le diete prescritte, i ricercatori hanno osservato che regimi iposodici facevano aumentare le popolazioni di linfociti T regolatori – con azione antiinfiammatoria - mentre diminuivano i T helper 17 – con azione proinfiammatoria.
Lo studio, pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista scientifica PlosOne, dimostra che sulla superficie dei linfociti esiste un recettore che se mutato, in seguito all'interazione con il sale, induce uno squilibrio nelle popolazioni linfocitarie, predisponendo a patologie autoimmunitarie come il lupus.
Quali zone colpisce
Ogni tessuto del nostro organismo può essere colpito dai sintomi del lupus. «Il danno genera un’infiammazione cronica che, a lungo andare, distrugge i tessuti», prosegue il dottor Meroni.
I sintomi principali sono legati al danno cutaneo (arrossamenti, rush) e a carico delle articolazioni (dolori articolari)”. In pratica, il lupus causa disturbi in varie parti del corpo, specialmente la pelle, le articolazioni, i reni, il sangue e ogni tipo di tessuto connettivo, oltre che il cervello.
Il coinvolgimento dei reni
Proprio i reni sono stati particolarmente colpiti nel caso della popstar Selena Gomez, che ha dovuto ricorrere al trapianto con un organo donato dalla sua migliore amica, l'attrice Francia Raisa Almendarez.
Come spiega il Johns Hopkins Lupus Center, il 50% delle persone che hanno questa patologia sperimenta un coinvolgimento dei reni. La parte più colpita sono i glomeruli, le componenti del rene dove si effettua la filtrazione del sangue.
Si può arrivare al trapianto d'organo perché la glomerulonefrite (questo il nome della malattia in cui sono colpiti i glomeruli) si cronicizza, determinando alterazioni anche dei vasi sanguigni che portano insufficienza renale e quindi richiedono la dialisi o appunto il trapianto.
I campanelli d’allarme
Ma come accorgersi che si tratta di lupus? «Bisogna prestare attenzione ad alcuni segnali. Per esempio, una giovane donna che al ritorno dalle vacanze accusa dolori articolari, febbre alta e poi sintomi più gravi come forte mal di testa, anemia e lesioni cutanee anche sul viso deve sospettare che si tratti di lupus e andare subito dal medico», spiega il dottor Valesini che aggiunge: «Il primo esame da fare è la ricerca di anticorpi anti-Dna attraverso un esame del sangue abbastanza semplice. I risultati vanno fatto vedere allo specialista di queste malattie che è il reumatologo o un esperto di malattie auto-immuni».
Lupus e maternità
La malattia compare prevalentemente nelle donne tra i 20 e i 40 anni. La maggiore frequenza del lupus in donne giovani e in età riproduttiva solleva quindi il problema del rapporto tra questa malattia e la maternità.
«Non ci sono controindicazioni alla maternità – chiarisce il dottor Meroni - ma solo la necessità di programmare la gravidanza evitandola in momenti di malattia ‘attiva’. La malattia non si trasmette direttamente ai figli, anche se esiste una componente genetica. Vi sono inoltre forme che si manifestano in età pediatrica che hanno caratteristiche cliniche in parte sovrapponibili a quelle dell’adulto. Nell’anziano invece il LES ha un quadro clinico generalmente meno aggressivo».
Le cure
Anche se per ora non esiste una cura definitiva per il lupus, attraverso i farmaci e uno stile di vita attento è in genere possibile raggiungere e mantenere una soddisfacente qualità di vita. «La prognosi del LES è cambiata drasticamente: negli ultimi 10 anni, infatti, le diagnosi sono state sempre più precoci, determinando un aumento della sopravvivenza della maggioranza dei pazienti a 10 anni dalla diagnosi», spiega il dottor Valesini.
«La mortalità a cinque anni dalla diagnosi è passata dal 35% degli anni ’70 a meno del 3% attuale. Ciò si deve alle tecniche diagnostiche più sensibili e a un più nutrito arsenale terapeutico: accanto ai tradizionali farmaci immunosoppressori sono oggi disponibili nuovi trattamenti che rappresentano un’evoluzione di alcune vecchie molecole, più efficaci e con ridotti effetti collaterali».
«Le novità più recenti sono i farmaci biologici, cioè quei farmaci che utilizzano anticorpi monoclonali per colpire i nemici della malattia, i fattori negativi che generano i sintomi e i disturbi. Grazie ai questi nuovi farmaci è migliorata sia la sopravvivenza che la qualità di vita dei pazienti e inoltre oggi ci sono lunghi periodi di remissione della malattia in cui i sintomi scompaiono».
settembre 2017
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