Ore sedute alla scrivania, senza aria condizionata. Se soffri di disturbi là dove non batte il sole, potresti andare incontro alle emorroidi, problema che interessa il 60% della popolazione italiana. Le vene e le arterie localizzate nel canale anale, sfiancandosi, danno origine a quei gavoccioli gonfi e di colore rosso acceso chiamati, appunto emorroidi.
Difficile che le emorroidi scompaiano da sole. Poiché non esiste una vera e propria terapia conservativa, nella stragrande maggioranza dei casi occorre affidarsi a un bravo proctologo e programmare l’intervento chirurgico. Quale? La tecnica più nuova, nata sotto il segno della mininvasività, si chiama THD e promette buoni risultati, senza incisioni da bisturi o da raggi laser. Ce ne parla il dottor Afshin Heydari, proctologo presso il Poliambulatorio Chirurgico Modenese (PCM).
Dottor Heydari, che cosa significa THD?
È l’acronimo di Transanal Hemorroidal Dearterialization, una metodica adatta a tutte le emorroidi, specie quelle di secondo e terzo grado. La differenza tra le due? Nelle emorroidi di secondo grado si ha un dolore sordo e un senso di pesantezza anale, che persiste dopo l’evacuazione, accompagnato spesso da piccole perdite di sangue. Il sintomo più fastidioso è dovuto al fatto che le emorroidi sotto sforzo fuoriescono dal canale per poi rientrare spontaneamente. Nelle emorroidi di terzo grado i sintomi sono più severi: dolore acuto dopo l’evacuazione, spot di sangue anche spontanei, fuoriuscita sotto sforzo delle emorroidi che però non rientrano da sole ma grazie alla “riduzione manuale”. Per quanto riguarda le emorroidi di quarto grado, invece, sono definite “non riducibili”: restano sempre all’esterno senza possibilità di farle rientrare. In questo caso, valuta il chirurgo se scegliere un’altra tecnica di intervento o un percorso a più step in cui il primo passo è dato dalla THD. Successivamente, si programmerà una seconda operazione, mirata a eliminare quel che resta di patologico, che però sarà molto più soft visto che il “grosso” del lavoro è già stato fatto.
La dearterializzazione tramite legatura, però, non è una novità....
Esatto: la legatura delle arterie che alimentano il plesso emorroidario è una tecnica in uso da quarant’anni. La novità della tecnica THD è che non si limita a “legare” i rami terminali delle arterie emorroidarie, responsabili di un iperafflusso di sangue, ma esegue anche una specie di “lifting” di tutta la zona. Mi spiego meglio: dai primi anni del 2000 si è visto che intervenire solamente sulle emorroidi serviva a poco, se non si correggeva anche il prolasso anale concomitante. Perché oltre il 95% dei soggetti afflitti da emorroidi, presenta un prolasso, cioè un cedimento strutturale, della mucosa che ricopre il canale anorettale. Curare le emorroidi, senza riposizionare la mucosa “scivolata” verso il basso, non risolve il problema ed espone a un altissimo rischio di recidive. La THD, invece, agisce su due fronti: “strozzatura” delle arterie e riposizionamento verso l’alto di tutto il “pacchetto” emorroidario.
In che cosa consiste esattamente l’intervento?
Si entra nel retto con un anoscopio, uno strumento ottico formato da un cilindro di plastica trasparente, lungo 10 cm e dal diametro di 3 cm che consente di visualizzare il campo operatorio. L’anoscopio cela una sonda doppler che, grazie agli ultrasuoni, “intercetta” subito i rami distali delle arterie emorroidarie. Il chirurgo, infatti, avverte il tipico suono amplificato del flusso di sangue arterioso. A quel punto l’anoscopio si trasforma in uno strumento chirugico: da una finestrella esce un ago curvo che circonda la circonferenza delle arteriole dilatate e le “strozza” alla base. Vengono fatte sei legature, tre a sinistra e tre a destra: l’afflusso di sangue ai “cuscinetti” si riduce sensibilmente e, di riflesso, si rimpiccioliscono. Il secondo obiettivo è quello di correggere il prolasso interno, tramite una sutura lungo le emorroidi e il loro riposizionamento nel canale anale.
È dolorosa la THD?
Poco, perché non prevede tagli meccanici con il bisturi, la radiofrequenza e il laser. Viene eseguita in day-surgery, cioè senza notti di degenza, tramite l’anestesia spinale accompagnata da una leggera sedazione generale. L’intervento dura 30 minuti e dopo 5-6 ore il paziente può andare a casa con le sue gambe. Quanto al decorso postoperatorio, la percezione del dolore è soggettiva e quasi esclusivamente limitata al momento dell’evacuazione. Per 5-7 giorni il paziente può manifestare il cosiddetto tenesmo, cioè la sensazione di avere l’alvo pieno e di dover andare in bagno. In realtà sono le suture interne che provocano questo senso di “pienezza”, scambiate dal cervello come presenza di feci. Ma poi subentra l’abitudine e il tenesmo passa. Per una decina di giorni dopo l’intervento viene prescritto un lassativo in sciroppo a base di lattulosio o delle bustine di cloruro di potassio e di magnesio. Richiamando acqua nell’intestino ammorbidiscono le feci in modo naturale.
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Articolo pubblicato sul n° 3 di Starbene in edicola dal 16 febbraio 2021