L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha riconosciuto l’equivalenza terapeutica di due medicinali usati per il trattamento dell’epatite C. Ciò significa che ogni Regione potrà organizzare un’asta e, alla fine, decidere di rendere mutuabile quello battuto al prezzo più vantaggioso, escludendo l’altro (in parte o del tutto) dalla rimborsabilità. La decisione non è stata accolta positivamente dalle società scientifiche e dalle associazioni dei pazienti affetti da epatite C, convinte che questo possa incidere sull’efficacia delle cure.
Dove sta il problema? Per essere equivalenti fra loro, due farmaci, oltre a contenere gli stessi principi attivi, devono avere le stesse indicazioni e contro indicazioni terapeutiche, la stessa modalità di somministrazione, la stessa posologia quotidiana, la stessa durata del trattamento e lo stesso profilo di interazione con altri farmaci, mentre i due trattamenti contro l’epatite C, a detta degli esperti, non sono sovrapponibili in nessuna di queste caratteristiche. Ecco perché le società del settore hanno chiesto all’Aifa di lasciare liberi gli specialisti di prescrivere il regime terapeutico più idoneo al singolo paziente, secondo scienza e coscienza, ma soprattutto senza limitazioni ricordando che in questo modo il virus dell’epatite C è stato eliminato in oltre 200mila persone, con esiti positivi nel 98% dei casi. In caso contrario, il rischio è quello di ridurre l’efficacia complessiva delle cure e di aumentare il tasso di effetti collaterali anche gravi.
L’interscambiabilità è un capitolo a parte
Questa diatriba fa nascere il sospetto che anche altri farmaci dichiarati equivalenti non siano poi così interscambiabili fra loro. «Nessun allarmismo», commenta Corrado Giua Marassi, farmacista clinico, presidente della Società italiana di farmacia clinica. «Gli equivalenti offrono la stessa qualità, sicurezza ed efficacia dei loro “fratelli” più famosi, quelli di marca». Vero. Ma l’interscambiabilità rappresenta un capitolo a parte. Tecnicamente, infatti, un medicinale può essere definito equivalente (o generico) se rilascia nel sangue lo stesso principio attivo dell’originale, anche se con un margine di tolleranza pari al 20% in più o in meno. E qui si apre il dilemma.
Meglio non cambiare spesso
Prendiamo la situazione più estrema: un farmaco originale A ha due equivalenti, B e C. Solo che B contiene il 20% in più del principio attivo rispetto ad A, mentre C ne contiene il 20% in meno. Ciò significa che, pur essendo entrambi equivalenti allo stesso originale di partenza, B e C differiscono del 40% nel loro contenuto terapeutico. Possibile? Sì, perché in fase di studio i medicinali equivalenti vengono confrontati unicamente con quello originale di marca, ma potrebbero non essere interscambiabili fra loro. «In gergo scientifico, questo fenomeno è denominato bio-creep», spiega Giua Marassi. «Quindi, se un paziente decide di ruotare periodicamente fra A, B e C, magari perché acquista i prodotti in farmacie differenti, il continuo “zapping” tra farmaci diversi potrebbe condurre a piccole fluttuazioni nel sangue del principio attivo». E non c’è nessuna possibilità per medici, farmacisti o pazienti di sapere quali sono gli equivalenti più simili, perché non si tratta di dati contenuti sulla confezione o nel comune foglietto illustrativo.
Si rischia anche la confusione
In realtà, si tratta di un problema puramente teorico, perché gli studi del settore hanno ampiamente dimostrato che la difformità tra farmaci non supera quasi mai il 4%, una media ben lontana dal 20% (in eccesso o in difetto) ammesso per legge. «Ma è comunque bene scegliere un farmaco, originale o equivalente, e seguire quella linea, soprattutto nelle terapie croniche», raccomanda Giua Marassi. «Al di là dell’equivalenza, che è sempre garantita, cambiare spesso marca di farmaci rischia anche di creare confusione, in particolare negli anziani, che normalmente si ritrovano ad assumere più terapie durante il giorno e possono fare confusione tra confezioni diverse dal solito, cadendo in errori di assunzione».
Un altro aspetto di cui tenere conto sono gli eccipienti, anch’essi variabili tra un farmaco e l’altro. «Normalmente, quando pensiamo a un medicinale, consideriamo soltanto il suo principio attivo: in realtà, all’interno del prodotto ci sono altri “ingredienti” ugualmente importanti, che servono a veicolare la preparazione all’interno dell’organismo e a favorire stabilità, conservazione, somministrazione, assorbimento ed efficacia», spiega il professor Luca Gallelli, professore di farmacologia clinica presso l’Università degli studi Magna Græcia di Catanzaro. «Parliamo di una pluralità di sostanze diverse, dai leganti agli antiossidanti, dai conservanti ai solubilizzanti, che hanno superato i test di sicurezza a livello della popolazione prima di essere stati approvati per il commercio».
Il rischio di tossicità
Il problema è che alcuni eccipienti possono essere inadatti (o addirittura tossici) per certi pazienti: pensiamo per esempio a glucosio e saccarosio, che andrebbero evitati nei diabetici; a parabeni e olio di arachidi, che possono causare reazioni allergiche nei soggetti predisposti; al lattosio, non indicato negli intolleranti; all’aspartame, che rappresenta un problema per chi è affetto da fenilchetonuria; all’amido di frumento, non sicuro per i celiaci. «Dal momento che a oggi la normativa prevede che un farmaco equivalente possa contenere eccipienti diversi rispetto all’originale, bisogna tenere sotto controllo anche questa variabile», conclude il professor Gallelli. «Spesso siamo convinti di non tollerare un certo farmaco, quando il problema è rappresentato solo da un singolo eccipiente. Questo suggerisce ulteriore prudenza: seguiamo le indicazioni mediche e, qualora il farmaco di nostro interesse non sia disponibile nella farmacia di fiducia, ordiniamolo o cerchiamolo altrove».
Quando è insostituibile
In caso di specifiche motivazioni cliniche, come le comprovate allergie o intolleranze ad alcuni eccipienti, il medico curante può apporre sulla prescrizione la dicitura “non sostituibile”, sia per il farmaco di marca, sia per il generico. In questo modo, se non dispone del prodotto in questione, il farmacista è chiamato a recuperarlo in giornata e non può proporre un’alternativa.
Gli italiani scelgono la marca
In media, ogni anno, gli italiani spendono un milione di euro in più pur di acquistare un farmaco con il brand famoso. Questo dato, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dimostra una resistenza nei confronti degli equivalenti.
La diffidenza si verifica soprattutto per i diuretici o per l’acido acetilsalicilico a basse dosi (per la prevenzione cardiovascolare), trattamenti che pur essendo di uso consolidato, sono soggetti a più effetti collaterali di varia intensità e possono portare a una maggiore “prudenza”. Detto ciò, dal 2008 al 2018, si è registrato un aumento delle prescrizioni di generici giustificato dai nuovi utilizzatori, meno legati alle marche note. Il dato emerge dal recente Studio Equipe, realizzato dall’Istituto di ricerca della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie, d’accordo con Assogenerici.
Fai la tua domanda ai nostri esperti
Articolo pubblicato sul n. 8 di Starbene in edicola dal 4 febbraio 2020