Congedo maternità: si cambia. Dal 2019, previa autorizzazione del medico, le future mamme potranno continuare a lavorare fino al nono mese di gravidanza, in modo da poter usufruire dei cinque mesi del congedo nel periodo successivo al parto. La modifica è stata approvata nella Legge di Bilancio 2019, ma ha sollevato parecchie polemiche.
Una decisione che, se da un lato va a privilegiare il rapporto madre figlio spostandone il distacco al quinto mese del bambino, dall’altra impone una riflessione sull’opportunità o meno per le donne di lavorare fino al termine della gravidanza.
Il parere dei ginecologi
«Occorre fare una premessa: fino a ieri il congedo maternità era previsto a decorrere dalla trentaduesima settimana, con la possibilità per la donna di richiedere il prolungamento fino alla trentaseiesima, previa autorizzazione medica», dice Alessandro Bulfoni, responsabile di Ostetricia e ginecologia dell’Ospedale Humanitas San Pio X di Milano. «Oggi il tempo limite si è spostato in avanti di un mese, come per altro già accade in Svizzera». Nessun rischio?
«Le donne in salute possono lavorare fino al nono mese di gravidanza senza problemi, al limite con alcuni accorgimenti: meno ore di lavoro e più regolarità nei pasti», sostiene Riccardo Morgera, direttore sanitario della casa di cura Ospedale Internazionale di Napoli.
Anche secondo il professor Filippo Boscia, di Bari, presidente nazionale dell’Associazione medici cattolici (Amci), «Una volta valutato il carico di lavoro non esistono controindicazioni se la futura mamma sta bene». Aggiunge il dottor Bulfoni: «Resta comunque una decisione da ponderare bene, senza sottovalutare alcuni elementi, per esempio la distanza dal luogo di lavoro, che per la donna in gravidanza rappresenta uno stress non indifferente».
Il parere dell’ostetrica
«La donna deve poter scegliere». È questo il pensiero di chi segue le neomamme dal parto al ritorno a casa, come Dora De Carolis, ostetrica della clinica Mangiagalli di Milano. Per lei non ci sono dubbi: «Ogni gravidanza è un mondo a sé, le mamme devono avere la libertà di scegliere se utilizzare il congedo prima o dopo il parto. Personalmente, credo sia più rasserenante per una donna posticipare di un mese il distacco dal neonato. Molte professioniste o lavoratrici autonome già scelgono di lavorare, senza alcun problema, fino al parto per preservare i cinque mesi successivi alla cura del nascituro».
Il parere del neonatologo
«La libertà di scegliere è una grande conquista concessa alle donne sulla gestione della propria maternità e sulla possibilità di coniugare gravidanza-lavoro-neonato. Esistono diverse realtà lavorative e diverse professionalità, così come differenti luoghi di lavoro che potrebbero consentire alla donna di lavorare fino al nono mese in totale sicurezza», commenta il professor Luca Bernardo, neonatologo e direttore ad interim della clinica Macedonio Melloni di Milano. «Il vantaggio? La possibilità di usufruire di un mese di congedo retribuito in più dopo il parto con indubbi benefici per la mamma, il neonato e la famiglia: uno di questi riguarda l’allattamento al seno che l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unicef consigliano esclusivo fino al sesto mese di vita.
Però non possiamo dimenticare chi si trova in condizioni di fragilità. Penso alle lavoratrici precarie e alle neoassunte. Per loro la scelta di restare al lavoro fino al termine della gravidanza potrebbe essere condizionata dal timore di perdere il lavoro, motivo per cui comprendo e rispetto le perplessità espresse dai sindacati sulla nuova legge.
Un ultimo aspetto da considerare nel valutare l’opportunità di entrare in maternità al nono mese è l’importanza per la donna di prendersi uno spazio “libero” prima del parto, in modo da concentrarsi su di sé e sulla futura maternità. Penso, per esempio, alla possibilità di frequentare i corsi di accompagnamento alla nascita: lì la gestante può trovare sostegno e “concentrazione”, grazie alla condivisione della stessa esperienza con un gruppo di future mamme come lei».
Il parere dello psicologo
«Pensare che la gravidanza sia uno stato di normalità che continua nonostante il bambino che si porta in grembo rischia di svilire l’importanza dal punto di vista psicologico delle ultime settimane, degli ultimi mesi», sostiene il dottor Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia. «Si tratta di un periodo in cui la donna deve prepararsi a un triplice cambiamento: psicologico (maggiore emotività, costruzione della relazione con il bambino, nuova identità), biologico (minor sonno, maggiore stanchezza, allattamento) e sociale (isolamento, rapporti con la rete femminile di cura, diversa relazione con il partner).
I rischi di una norma che consente di lavorare fino al nono mese dunque sono molteplici. Innanzitutto legittima un’aspettativa generale di maggior produttività, aumentando le pressioni che già le donne sentono su se stesse e che possono incidere sulla loro salute e su quella del nascituro. In un mercato del lavoro sempre più precario e, nelle piccole realtà, poco tutelato, la possibilità di usufruire di questa misura può spingere alcune donne ad andare oltre le proprie forze fisiche e psicologiche, di fronte a datori di lavoro non curanti della loro condizione. Conducendole in una spirale di eventi stressanti e dannosi per tutti. Infine, nel bilancio dei vantaggi e degli svantaggi, c’è da considerare che non staccare dal lavoro e negarsi lo spazio psicologico del preparto, può portare ad avere minori risorse mentali preziose per il dopo, risorse non “acquistabili” in un momento successivo».
Attenzione alla depressione post partum
«Se le cose vanno per il verso giusto (un buon parto, un bambino nato a termine, senza complicanze), aver lavorato sino al nono mese può non rappresentare un immediato fattore di rischio di depressione post partum», puntualizza lo psicologo Riccardo Bettiga.
«Ma se le cose, per qualsiasi motivo, dovessero andare male, aver lavorato fino all’ultimo giorno potrebbe portare a rileggere in chiave negativa e con senso di colpa tutto quanto (“non mi sono occupata abbastanza della mia gravidanza e del bambino”). In ogni caso, concedersi tempi e spazi mentali congrui, prima della gravidanza, durante e dopo, rappresenta un fattore di protezione universale dalla depressione che è sempre molto pericoloso eliminare».
Insomma, sapere di avere due mesi in più per occuparsi del proprio cucciolo può essere tranquillizzante. Il rischio è soffocare o procrastinare un cambiamento mentale necessario nei primi giorni e nelle prime settimane di vita del bambino.
Che cosa succede in Europa
La rivista The Economist ha svolto un’inchiesta da cui risulta che Estonia, Bulgaria e Ungheria consentono alle neomamme di prendere un congedo di tre anni con un compenso pari a quello che avrebbero avuto lavorando full time per un anno e mezzo. Anche Lituania, Repubblica Ceca, Lettonia e Slovacchia sono molto generose: le donne possono assentarsi dal lavoro tra i due e i tre anni ricevendo complessivamente 12 mesi di stipendio pieno.
Nell’Europa occidentale le nazioni più attente alle future mamme sono quelle scandinave: in Norvegia, Svezia, Danimarca e Finlandia vengono concessi congedi per almeno un anno (il record spetta alla Finlandia con tre), retribuiti al 100 % per 50 settimane. Seguono Austria e Germania, dove le neomamme hanno diritto a un congedo di un anno pagato al 100%. In ritardo l’Italia, che prevede cinque mesi di congedo maternità all’80% più un massimo di altri 6 mesi di congedo parentale al 30%.
Fai la tua domanda ai nostri esperti
Articolo pubblicato sul n. 4 di Starbene in edicola dall'8 gennaio 2019