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Malattie autoimmuni, quali sono e come curarle. Le novità

Può succedere che il sistema di difesa dell’organismo vada in tilt e cominci ad aggredire e distruggere cellule del corpo, compromettendo il funzionamento di alcuni organi. Scopri tutte le novità sulle malattie autoimmuni, come riconoscerle e affrontarle

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Cosa penseresti di un soldato che spara ai suoi commilitoni o di un calciatore che segna volontariamente nella sua stessa porta? “È impazzito”, diresti. Accade la stessa cosa all’organismo quando viene colpito da una malattia autoimmune: il sistema di difesa dell’organismo scambia per nemici da aggredire e distruggere alcuni elementi che in realtà fanno parte del corpo. Questo sorta di “cortocircuito” colpisce circa il 5% della popolazione dei Paesi occidentali, in netta prevalenza donne.

Le cause? Bisogna avere una predisposizione genetica, ma ci sono anche alcuni fattori che aumentano il rischio di soffrirne: per esempio i mutamenti ormonali, certi virus (come quello dell’herpes o della mononucleosi infettiva), alcuni atteri, il fumo di sigaretta.

Incidono anche un forte stress psicologico (un lutto, un divorzio, la perdita del lavoro) oppure condizioni di grave  affaticamento fisico, così come l’esposizione molto intensa e prolungata al sole o ai raggi Uva delle lampade abbronzanti. Le malattie autoimmuni sono tante e, a oggi, non esiste una cura, ma solo la possibilità di tenerle sotto controllo.


Le più diffuse sono l’artrite reumatoide, il lupus erimatoso sistemico e la tiroidite di Hashimoto. Per capire meglio come riconoscerele e affrontarle abbiamo chiesto aiuto a tre esperti: Mauro Galeazzi, docente di reumatologia all’Università di Siena, Vincenzo Bruzzese, past president della Società italiana di gastroreumatologia e Andrea Giustina, ordinario di endocrinologia all’Università Vita Salute, San Raffaele di Milano.



L’artrite reumatoide


L'artrite reumatoride è una malattia cronica infiammatoria che colpisce le articolazioni, ma può coinvolgere anche polmoni, cuore, arterie e sistema nervoso. Nel mondo riguarda oltre 23 milioni di persone, in Italia i pazienti sono circa 400 mila, in 3 casi su 4 sono donne tra i 35 e i 50 anni.

«Il sintomo principale è il dolore alle articolazioni delle mani e dei polsi, continuo e indipendente dal movimento. Ma il problema può riguardare anche ginocchia, piedi, caviglie, gomiti, spalle e le prime due vertebre della colonna», spiega il professor Mauro Galeazzi.

«Soprattutto al risveglio, le articolazioni si gonfiano e risultano rigide per almeno un’ora. Molto frequenti anche un senso di spossatezza e della febbricola». Non esiste un esame specifico per diagnosticare questa malattia, ma di solito si ricorre ad alcuni test del sangue:

«Per esempio il fattore reumatoide, un anticorpo presente in circa il 70% dei pazienti, gli indici di infiammazione come Ves e Pcr, e le anti-proteine citrullinate. Utile anche un’ecografia: serve a valutare un’eventuale infiammazione della membrana sinoviale, il rivestimento interno delle articolazioni».

La cura dell’artrite reumatoide si svolge  su più fronti: arrestare la progressione della malattia, ridurre il dolore (che influisce pesantemente sulla qualità della vita sociale e di coppia, oltre che sul lavoro) e combattere l’infiammazione:

«Ecco perché la terapia affianca, agli antidolorifici e agli antinfiammatori non steroidei, farmaci antireumatici (della classe Dmards) come il metotrexato. Quando però la malattia non si arresta, si ricorre di solito ai farmaci biologici come l’adalimumab.

Ma l’ultima novità è una molecola chiamata baricitinib: «Diversi studi dimostrano che è particolarmente utile per i pazienti che non ottengono miglioramenti significativi né con i Dmards né con i farmaci biologici.

È più rapida, visto che dà ottimi risultati già a una settimana dall’inizio del trattamento, e più efficace contro il dolore articolare, la rigidità mattutina e il senso di stanchezza», precisa Galeazzi. «Inoltre, rispetto alle altre molecole che richiedono l’iniezione, si somministra per bocca e una sola volta».

Il lupus eritematoso sistemico

Anche il lupus eritematoso sistemico (Les) è una malattia infiammatoria cronica che può coinvolgere tutti gli organi e apparati del corpo, dalle articolazioni alla cute, dal cuore ai reni, ai polmoni e al sistema nervoso. In Italia colpisce circa 60 mila persone, quasi sempre donne (in rapporto di 9 a 1 rispetto agli uomini) tra i 15 e i 45 anni.

«Il sesso femminile è più esposto a questo tipo di patologia sia perché ha un sistema immunitario più sensibile sia perché è influenzato dagli estrogeni, ormoni sessuali che inducono a una maggiore produzione di autoanticorpi», spiega il professor Vincenzo Bruzzese.

All’inizio questa patologia può presentarsi nei modi più diversi: «Con una febbre di origine sconosciuta oppure come una pleurite, una nefrite, un’anemia, una pericardite. Ciò può farla confondere con altre malattie».

Invece, nella maggior parte dei pazienti con Les conclamato, i sintomi sono di tipo dermatologico: «Come l’eritema “a farfalla” sulle guance, o anche alopecia, ulcerazioni della mucosa della bocca, del naso o genitali, e altre lesioni cutanee.

Sono però molto frequenti anche i dolori articolari, soprattutto alle mani, ai polsi e  alle ginocchia. E il coinvolgimento del sistema nervoso», aggiunge Bruzzese.

Non esiste una terapia definitiva: «Non se ne conosce la causa e dunque non si può agire contro di essa. L’obiettivo principale resta comunque la remissione completa della malattia, che si può ottenere solo attraverso una diagnosi tempestiva e un continuo controllo da parte del medico, che deve modulare la cura a seconda delle sue varie fasi », sottolinea l’esperto.

Come tutte le malattie autoimmuni, infatti, anche il Lupus procede in modo irregolare e imprevedibile, con alti e bassi: «Se la cura è ben gestita dal medico e seguita dal paziente, la qualità della vita del malato si mantiene quasi normale sotto tutti gli aspetti».

I farmaci più usati per trattare il lupus? «Anzitutto il cortisone, che ha di certo migliorato la prognosi di questa malattia, ma presenta molti effetti collaterali e va usato alla dose minima efficace e, appena possibile, sospeso.

Quindi gli immunosoppressori come la ciclosporina. Inoltre, l’idrossiclorochina. L’ultima novità, però, è il Belimumab, il primo farmaco realmente studiato per la cura del Les», precisa il professor Bruzzese.

La tiroidite di Hashimoto


Quando il sistema immunitario attacca per errore la tiroide, il risultato è un’infiammazione della ghiandola: la produzione di ormoni tiroidei diminuisce e diventa insufficiente per rispondere al fabbisogno dell’organismo.

È la tiroidite di Hashimoto, dal nome del medico giapponese che la studiò per primo. «È la causa più comune di ipotiroidismo. I linfociti, cioè una parte dei globuli bianchi del sangue, si accumulano nella tiroide come conseguenza del processo autoimmunitario », spiega il professor Andrea Giustina.

Più frequente nelle donne, colpisce soprattutto in due momenti della vita: durante l’adolescenza e poi in menopausa. «Nella sua fase iniziale, la tiroidite di Hashimoto di solito non dà sintomi.

Quando però la patologia avanza, può verificarsi un ingrossamento della ghiandola, il cosiddetto gozzo», precisa il professor Giustina. È l’indicatore più visibile del problema, che può dare un senso di pienezza nella gola, anche senza creare dolore.

Gli altri sintomi sono quelli tipici dell’ipotiroidismo: aumento di peso, stipsi, alterazioni del ciclo mestruale, senso di spossatezza, cattivo umore, problemi di memoria e scarsa sopportazione del freddo», elenca l’esperto.

Sono segnali caratteristici di tante altre malattie, e questo può rendere più complicata la diagnosi. Per confermarla, il medico prescrive esami del sangue specifici: la misurazione del Tsh, del T4 e la ricerca degli anticorpi tiroidei. Più raramente si ricorre anche all’ecografia o alla Tac.

La terapia si basa sull’assunzione di levo-tiroxina, che è lo stesso ormone secreto dalla ghiandola tiroidea sana e che quindi serve a compensare il fabbisogno dell’organismo.

«Va assunto ogni giorno, in dosi che il medico cambia periodicamente, dopo aver verificato tramite le analisi il valore del Tsh. In questo modo la tiroidite di Hashimoto può essere tenuta sotto controllo senza troppe difficoltà, purché il paziente rispetti sempre e con attenzione la terapia», avverte Andrea Giustina.

Il grande vantaggio di oggi, rispetto al passato, è che il medico può personalizzare la terapie sulla base delle specifiche esigenze del malato: 

«Chi ha problemi di assorbimento (come i celiaci) oppure ha difficoltà ad assumere compresse, può risolvere il problema assumendo, per esempio, la levo-tiroxina in formulazione liquida o in capsule molli, oppure in combinazione con la liotironina», conclude il professor Giustina. 

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Articolo pubblicato sul n. 44 di Starbene in edicola dal 24/10/2017

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