Fiori selvatici tra le spighe di grano. Risaie sorvolate da uccelli acquatici. Frutteti sorvegliati da coccinelle e pipistrelli. È l’agricoltura che non ti aspetti, quella che in futuro vedremo sempre più spesso nelle nostre campagne. Restituire spazio alla natura nei terreni coltivati è infatti la nuova scommessa su cui punta l’Europa, nell’intento di difendere l'ambiente e la biodiversità, ridurre l’uso di sostanze chimiche e produrre alimenti più sani e sostenibili.
Le linee guida sono tracciate da due importanti documenti che riguardano tanto gli agricoltori quanto i consumatori: “Strategia per la biodiversità al 2030” e “Farm to Fork”, ovvero “dal campo alla forchetta”. Il primo raccomanda agli Stati membri di destinare almeno il 10% delle superfici agricole a elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità, ad esempio siepi, alberi non produttivi, terrazzamenti e stagni, in modo da lasciare spazio agli animali selvatici, alle piante, agli impollinatori e ai regolatori naturali dei parassiti. Il secondo documento, invece, propone di dimezzare entro il 2030 l’uso dei pesticidi chimici e di adibire all’agricoltura biologica almeno il 25% dei terreni agricoli, per produrre cibi più sani e dal ridotto impatto ambientale.
Dalla natura dipende oltre la metà del PIL mondiale (circa 40.000 miliardi di euro). Si stima che, dal 1997 al 2011, il calo della biodiversità abbia causato perdite pari a 3.500- 18.500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale, e che il degrado del suolo sia costato tra 5.500 e 10.500 miliardi di euro l’anno.
Serve un’agricoltura non invasiva
Queste misure rappresentano un’importante inversione di rotta anche culturale, perché affermano un principio non scontato: l’agricoltura, che per definizione rompe gli equilibri naturali, non deve essere vista in antitesi rispetto alla biodiversità. Ne è convinto anche Stefano Bocchi, docente di ecologia agraria presso il Dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano.
«Attraverso l’agricoltura, l’essere umano sostituisce le comunità di piante e animali naturalmente presenti in un territorio con poche specie utili alla produzione di alimenti e biomassa (materiale organico usato per produrre energia): questo porta, inevitabilmente, a una riduzione della biodiversità. Nel corso dei secoli, però, gli agricoltori si sono ingegnati per introdurre innovazioni che permettessero di mantenere l’equilibrio artificiale ricreato nei campi, senza disarticolare completamente l’ecosistema: basti ricordare le antiche rotazioni delle colture, perfezionate dal Medioevo in poi». Tutto è cambiato nella seconda metà del Novecento, quando dal Nord America è arrivato in Europa un nuovo modo di fare agricoltura, fortemente improntato alla produttività e legato alle richieste dei mercati internazionali. «La cosiddetta “agricoltura industriale”, che punta a ottenere prodotti standardizzati con un’alta resa, ha imposto un maggiore uso di fertilizzanti e fitosanitari e, con il ricorso al miglioramento genetico delle varietà coltivate, ha portato a un forte impoverimento della biodiversità», osserva l’esperto.
Il paesaggio è sempre più fragile
Lo evidenziano anche i dati della FAO, che Bocchi non esita a definire allarmanti. Nel corso del XX secolo abbiamo perso quasi il 75% della biodiversità, sia naturale sia coltivata, tanto che il 66% della richiesta mondiale di cibo si basa ormai su nove colture soltanto: canna da zucchero, mais, riso, frumento, patata, soia, palma da olio, barbabietola da zucchero e manioca. Con il passare degli anni appare sempre più evidente che questa aggressività nei confronti della natura non paga.
«Dopo l’aumento di produttività registrato tra gli anni ’60 e ’70 – precisa Bocchi - si è poi arrivati a un plateau: oggi, con il cambiamento climatico, per alcune coltivazioni si registra perfino un declino della produzione». Perché il problema è proprio quello: se l’agroecosistema viene semplificato in maniera eccessiva puntando su poche specie, rischia di diventare più fragile e vulnerabile alle minacce, come gli eventi meteo estremi o l’invasione di specie aliene. «La “rinaturalizzazione” del paesaggio agrario può essere un modo per migliorare la resilienza delle colture e delle aziende agricole», afferma l’esperto. Reintrodurre siepi, filari di alberi, fasce di prato o bosco significa porre un filtro agli inquinanti, mitigare gli effetti dell’erosione e aumentare lo stoccaggio di anidride carbonica. Questi elementi vanno però combinati cercando di creare una continuità nel paesaggio, in modo da offrire corridoi ecologici a insetti e piccoli animali preziosi, per esempio, nella lotta ai parassiti.
Qualcosa sta cambiando
Produrre in modo diverso è possibile, come dimostra il buon esito di “Risobiosystems”, un progetto di ricerca condotto da un gruppo di agricoltori della Lomellina e del Vercellese in collaborazione con il CREA, l’Ente Nazionale Risi, l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Torino e il CNR. Sostenuto dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, «il progetto in tre anni ha verificato come si possa aumentare la produttività anche del 10-15% rispetto a quella con i tradizionali metodi dell’agricoltura biologica», spiega Bocchi. Grazie a sperimentazioni pilota come questa, la nuova rivoluzione verde sta iniziando a muovere i primi passi. «Ci attendono anni di cambiamenti intensi», prevede l’esperto. «Alcune Regioni italiane sono già a buon punto, penso ad esempio a Toscana, Emilia Romagna, Abruzzo e Marche, mentre altrove resta molto da fare», conclude il docente di ecologia agraria.
Impollinatori: una risorsa da proteggere
Il 9% delle specie di api e farfalle rischia l’estinzione e con loro è minacciata l’impollinazione delle piante, un “servizio ecosistemico” che vale 3 miliardi di euro solo per l’agricoltura italiana. A lanciare l’allarme è l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca Ambientale (ISPRA). Il declino degli impollinatori, spiegano gli esperti, dipende da pressioni ambientali che spesso agiscono in sinergia: distruzione e frammentazione degli habitat, inquinamento, eccesso di pratiche agricole intensive, cambiamenti climatici, diffusione di specie aliene invasive, tra cui patogeni e parassiti, e specie vegetali che alterano l’habitat o sono tossiche per le specie impollinatrici native. A loro difesa tante le iniziative, come quella della startup agri-tech 3Bee che, entro il 2023, intende piantumare 100 mila alberi autoctoni ad alto potenziale nettarifero, all’interno di oasi di biodiversità, per garantire pascolo agli insetti impollinatori.
I 5 fattori che favoriscono la perdita di biodiversità del terreno
- Modifiche nell’utilizzo del suolo (disboscamento, monocolture intensive, urbanizzazione)
- Specie esotiche invasive
- Pratiche non sostenibili di sfruttamento del suolo
- Inquinamento dell’aria e del sottosuolo
In campagna, basta uno sguardo attento per capire se la zona è “amica” della biodiversità
1. La varietà
La presenza di diverse colture e la loro rotazione permette di aumentare la fertilità del suolo e ridurre la presenza di erbe infestanti e parassiti.
2. I corridoi ecologici
Fasce di bosco o prato con fiori selvatici, siepi e corsi d’acqua, se sono collegati fra loro con una certa continuità, fungono da corridoi ecologici. Favoriscono l’insediamento e il passaggio degli insetti impollinatori e dei predatori naturali dei parassiti che minacciano le coltivazioni.
3. Cince e pipistrelli
Questi volatili sono dei grandi alleati dei coltivatori perché si nutrono di larve, bruchi e parassiti. La presenza di casette di nidificazione e ripari può aiutarli a “sorvegliare” i campi.
4. Le api
Arnie e rifugi artificiali (“beehotel”) che simulano i luoghi di nidificazione e svernamento sono fondamentali per aiutare questi insetti. Le api sono gli impollinatori per eccellenza, essenziali per la riproduzione delle piante e per la produzione dei frutti. La loro presenza indica una buona qualità dell’ambiente, un ridotto uso di sostanze chimiche e suggerisce la presenza di biodiversità.
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