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Lavorare troppo: che cos’è la sindrome dell’ape indaffarata

C’è chi lavora senza sosta, trascurando se stesso, la famiglia, gli amici. Se protratto nel tempo, questo stress può sfociare in problemi fisici e problemi relazionali

Foto: iStock



Mille appuntamenti? Calendario fitto? Troppe cose in ballo? Gli inglesi usano l’espressione “busy as a been”, che significa “occupato come un’ape”, per indicare una dinamica piuttosto diffusa nella società moderna: l’essere costantemente sopraffatti dagli impegni e dalle responsabilità, come un’ape che vola freneticamente da un fiore all’altro senza un attimo di pausa. Se eccessiva, questa condizione di costante stress può portare al cosiddetto burnout, un collasso emotivo ed energetico, che influisce profondamente sulla qualità di vita personale, professionale e sociale. «In questi casi si parla di sindrome dell’ape indaffarata, un’espressione usata nel gergo comune per indicare qualcosa di molto simile al workaholism, il comportamento patologico di chi è troppo dedito al lavoro e mette in secondo piano la sua vita sociale e familiare», commenta il dottor Enrico Gamba, psicologo e psicoterapeuta a Milano.

 

Che cos’è la sindrome dell’ape indaffarata

Nel mondo attuale, essere occupati viene vissuto come un distintivo d’onore. Nel libro “The Power of Human”, l’autore Adam Waytz racconta l’aneddoto di un uomo emigrato negli Stati Uniti che finì per pensare che la parola “busy” (impegnato) significasse “bene”, perché quando chiedeva alle persone “Come stai?” si sentiva rispondere “busy”. In effetti, un po’ per tutti, le giornate stanno diventando sempre più fitte e c’è povertà di tempo libero.

«Si cade nel patologico se quegli impegni arrivano a interferire con altre aree della nostra vita, come l’affettività e la cura di sé», tiene a precisare il dottor Gamba. Nella sindrome dell’ape indaffarata, infatti, la professione diventa il perno attorno al quale ruota tutta la propria vita e si arriva a considerarla prioritaria rispetto a famiglia, salute e ogni altro interesse. «Chi ne soffre sente la necessità di lavorare in continuazione, non riesce a porre un confine tra la vita professionale e quella familiare, non trova mai tempo per se stesso, non si concede momenti di svago e spesso finisce per trascurare i suoi bisogni primari, come dormire e mangiare», evidenzia l’esperto.


Quali sono le cause

Sono tante le ragioni che si nascondono dietro questo fenomeno sempre più diffuso. Talvolta, l’eccessiva produttività può essere la risposta a una certa cultura aziendale: «Per esempio, se lavoriamo in un’azienda che impone ritmi lavorativi frenetici, orari dilatati e disponibilità a oltranza, possiamo cadere in un vortice di stress, frustrazione ed esaurimento psicofisico per un bisogno di adattamento sociale», spiega il dottor Gamba. «Magari non abbiamo altra scelta che accettare quella situazione, in altri casi invece la sopportiamo per uno scopo ben preciso: uno stipendio molto alto, la possibilità di andare prima in pensione, un progetto familiare che abbiamo in programma».

Nella sindrome dell’ape indaffarata, invece, è la singola persona a sviluppare quella forte dipendenza da lavoro, non per forza indotta dall’ambiente circostante: «È un’attitudine personale spendere tutte le proprie energie nell’attività professionale. E questo può dipendere da molteplici cause, spesso diverse a seconda della fase di vita», precisa l’esperto. C’è chi vuole semplicemente farsi notare in azienda, ottenere un certo ruolo o fare una “scalata” in termini di carriera, senza rendersi conto degli effetti collaterali delle proprie scelte. E poi c’è chi presenta un disturbo d’ansia, che determina un bisogno compulsivo di lavorare.


Quando diventa un problema      

Se a causare la sindrome dell’ape indaffarata è un atteggiamento compulsivo, la persona pensa solo alla sua occupazione, trascura ogni altro interesse, accampa scuse per rifiutare qualsiasi proposta arrivi dagli amici o dalla famiglia, controlla costantemente le mail, non dorme bene la notte, non riesce mai a staccare la spina. «Spesso, queste persone sono alla ricerca di se stesse, non hanno ancora strutturato una loro personalità, non sanno cosa è importante e cosa può renderle felici», riflette il dottor Gamba.

«Un po’ come accade nelle dipendenze da sostanze, buttarsi nel lavoro diventa un modo per attutire quel senso di angoscia e sofferenza che si può sentire in un momento di “stasi”, quando sovente si traccia un bilancio della propria vita. Magari sono persone che non sono riuscite a costruire una relazione affettiva e, per questo, si buttano a capofitto in un lavoro dove ricevono feedback positivi per rafforzare la loro autostima. Così facendo, senza rendersene conto, iniziano a evitare in maniera selettiva tutto il resto: le uscite con gli amici o un nuovo rapporto affettivo. Salvo poi ritrovarsi completamente soli a 50-60 anni».


Quali sono i segnali a cui prestare attenzione

La sindrome dell’ape indaffarata si manifesta con alcuni macro segnali caratteristici, come una caduta nelle altre aree della vita, il fatto di non riuscire a non pensare al lavoro, il dover costantemente controllare le mail, rispondere al telefono o pianificare l’attività. Da qui, poi, possono derivare altri segni (a livello fisico e familiare) dovuti al burnout: disturbi del sonno, tensione muscolare, disturbi cardiaci, mal di stomaco, ipertensione, conflitti in famiglia.

 

Come gestire il problema

Imparare a rallentare, godendosi piccole pause rigeneranti, è la chiave per contrastare la sindrome dell’ape indaffarata e vivere una vita più appagante. Per riuscirci:

  • stabiliamo delle priorità. C’è chi trascorre la vita lavorando “in urgenza”. Eppure, non tutto può essere prioritario. Imparare a stabilire delle priorità migliora l’efficienza e consente di stilare in piano d’azione più adeguato;
  • dedichiamo qualche minuto ogni giorno a un’attività che ci piace davvero. Iscriversi in palestra non è la soluzione al problema, come spesso si pensa. Aggiungere un impegno a caso alla lista delle cose da fare rischia solo di appesantirla ulteriormente. Bisogna trovare qualcosa di gradito, a cui dedicare un po’ di tempo ogni giorno: praticare meditazione, fare una passeggiata da soli o con un amico, coltivare un hobby;
  • pianifichiamo la nostra vita. Alla prestigiosa Università di Stanford esiste un percorso di “life design”, in cui i docenti insegnano a ideare il proprio futuro professionale, e non solo, attraverso un approccio non convenzionale, che applica i principi del Design Thinking, di solito utilizzato nel campo della gestione aziendale. Anche noi pianifichiamo la nostra vita con un progetto di breve, medio e lungo termine, che tenga conto dei nostri bisogni reali (movimento fisico, alimentazione sana, relazioni affettive significative, soddisfazione personale);
  • chiediamo aiuto se non ce la facciamo. Se la sindrome dell’ape indaffarata ha raggiunto livelli eccessivi, il problema va affrontato sotto la guida di esperti di dipendenze comportamentali attraverso terapie che possono essere individuali, di gruppo o farmacologiche. La scelta della strada più adeguata arriva dopo una diagnosi accurata, che sonda per intero la personalità. Una volta individuate le cause e il livello di dipendenza, viene intrapreso il trattamento di rieducazione al lavoro, ma anche a una vita piena e felice.


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