Da qualche settimana anche in Italia si parla della sfida della balena blu o Blue Whale: un “gioco” da social network in cui un tutor chiede a chi decide di partecipare di autoinfliggersi violenze, documentandole con foto e video.
Infine, come le balene si spiaggiano, ai giocatori è richiesto di suicidarsi. Paradossalmente, questa storia ha un merito: aver messo in primo piano un fenomeno di cui si fa molta fatica a parlare, cioè l’autolesionismo adolescenziale che, secondo dati dell’Osservatorio Adolescenza, riguarderebbe 2 teenager su 10.
Di che cosa si tratta?
«I ragazzi compiono contro loro stessi gesti di violenza, per esempio ferendosi con lame o procurandosi ustioni. Passano lunghe ore in rete per trovare informazioni “tecniche” su come farsi male, ma anche per incontrare altri teenager con cui condividere l’esperienza», risponde Michele Dolci, psicologo specializzato in psicoterapia breve strategica e coautore del saggio Adolescenti violenti: contro gli altri, contro se stessi (Ponte alle Grazie, 15 €).
«Iniziano già a 10-12 anni, età in cui la ricerca di novità ed eccitazione aumenta drasticamente e si combina con una scarsa capacità di auto-regolazione. Il risultato? Un terreno psicologico fertile per le condotte che prendono di mira il corpo».
Chi lo fa e perché?
«L’autolesionismo tende a essere vissuto in maniera nascosta, perciò è difficile sapere quanti sono i soggetti interessati. Spesso, poi, le famiglie non ne parlano per vergogna. I maschi sembrano essere in minoranza, ma forse solo perché le ragazze sono più disposte ad aprirsi e confessare».
Quali sono i motivi?
«La violenza contro se stessi ha una funzione sedativa: i giovanissimi decidono di soffrire fisicamente per far fronte a uno stato d’animo doloroso (abbandono, tradimento, fallimento) per il quale non hanno altri strumenti a disposizione.
In presenza di ferite, infatti, il sistema nervoso rilascia endorfine, che in primis calmano il dolore fisico, poi placano la mente innescando un senso di benessere ed euforia.
I ragazzi più grandi, che hanno iniziato da piccoli per superare un disagio, continuano a farlo perché per loro è diventato un modo per provare un piacere perverso e irrinunciabile: come dimostrato dagli studi del medico francese Henri Laborit [pioniere nel campo delle neuroscienze comportamentali, ndr], ogni atto, anche doloroso, può diventare piacevole quando è ripetuto un certo numero di volte».
Quando allarmarsi?
«Bisogna fare attenzione ai segnali di disagio: cambiamenti improvvisi del tono dell’umore con accessi di rabbia o tristezza segnalano che i ragazzi vivono una forte emozione negativa e perciò potrebbero ricorrere a queste pratiche.
Una volta procurate le lesioni, si vestono coprendo accuratamente polsi, braccia e gambe, persino in estate, e dormono meno a causa della eccitazione da endorfine. L’altro campanello d’allarme è la tendenza all’isolamento: per compiere il rituale servono concentrazione, tempo e privacy».
Come reagire
«Una volta appurato che il ragazzo si fa del male, non bisogna lasciarsi prendere dal panico confondendo l’autolesionismo con i tentativi di suicidio», raccomanda lo psicologo Michele Dolci. «Il suicida vuole togliersi la vita per azzerare le sensazioni e il pensiero, mentre l’autolesionista mira a risolvere il suo disagio e a vivere meglio.
Bisogna perciò chiedere aiuto a uno specialista esperto di questo fenomeno, che sappia inquadrarlo esattamente. Oltre alla terapia breve strategica (centroditerapiastrategica.com), anche quelle cognitivo comportamentali hanno buoni protocolli di intervento, così come la Schema Therapy (per entrambe, studicognitivi.it)».
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Articolo pubblicato sul n. 25 di Starbene in edicola dal 6/6/2017