Cyberbullismo, disturbi alimentari, ma anche crisi di ansia e frustrazione sono in aumento tra i giovani. Secondo gli esperti, si tratta di un effetto della pandemia e di un conseguente abuso dei social. Durante il lockdown dovuto all’emergenza Covid, infatti, sono cresciuti l’isolamento e il tempo trascorso sulle varie piattaforme, soprattutto da parte dei ragazzi. Secondo un rapporto dei CRC, l'agenza federale del Dipartimento della salute degli Stati Uniti, quasi 3 ragazze adolescenti statunitensi su 5 (57%) si sono sentite costantemente tristi o senza speranza negli ultimi due anni, e quasi 1 giovane su 3 (30%) ha preso in considerazione il tentativo di suicidio. In Italia la situazione è analoga: secondo i dati dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù i
tentativi di suicidio tra i giovanissimi sono aumentati del 75% nel periodo della pandemia. Neppure il
ritorno alla normalità avrebbe portato a un’inversione di tendenza.
L’allarme pandemia e social ha portato anche a un intervento da parte dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, secondo cui «È opportuno che il legislatore o il governo italiano trovino lo stesso coraggio, presentando una proposta di legge, per alzare l’età per il consenso digitale al trattamento dei dati dei
minorenni senza l’intervento dei genitori». Si auspica che, limitando l’uso dei social, si possano ridurne anche i possibili “effetti negativi”. È d’accordo anche Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy, l’associazione dei professionisti della privacy e della protezione dei dati personali: «Come per le sigarette riguardo ai danni sulla salute, sarebbe efficace un avviso preventivo sui rischi che si corrono se si decide di postare un contenuto sensibile». La stessa Federprivacy ha organizzato il Privacy Day Forum per il prossimo 25 maggio, con la presenza dello psichiatra, educatore, saggista e opinionista Paolo Crepet, che abbiamo intervistato sul tema.
Professor Crepet, siamo davvero arrivati a un uso distorto e pericoloso dei social?
«Siamo arrivati all'apice degli effetti negativi di un uso smodato e incontrollato dei social. È ora di mettere un argine. Se una ragazzina si fa un selfie e lo posta perché il mondo lo veda, a contare è solo la sua rappresentazione visiva, tutto il resto passa in secondo piano. Si è perso il senso del limite, si sta assecondando il cinismo di certe aziende che fatturano trilioni di dollari sfruttando l'immagine dei nostri figli», spiega Crepet.
I social quindi hanno perso la loro funzione di aiutare la “socializzazione”?
«Assolutamente sì. I social in realtà dovrebbero chiamarsi a-social, visto che predicano assoluta solitudine e sembrano fatti apposta per “asocializzare”. Questo riguarda i giovani, ma anche i meno giovani. I Boomers che parlano male dei Millennials sono i primi asociali».
Secondo lei è opportuno imporre dei limiti all’accesso ai social per i più giovani?
«Io credo che occorra coraggio, che qualcuno dia l’esempio e prenda le distanze dai social. Ci sono casi come quello di Billie Eilish (che ha tolto i social dal suo smartphone, ndr) e non è da poco: è facile staccarsi quando si hanno 25 followers, ma se uno ne conta 25 milioni il suo gesto diventa eclatante. Forse anche qualche politico dovrebbe farlo».
C’è chi invece sui social è molto presente, come Fedez, che condivide tutto a partire dai problemi di salute. Dopo il suo video su Instagram in cui ha parlato dell’effetto degli psicofarmaci (presi dopo l’intervento al pancreas, ma interrotti in modo brusco), molti giovani hanno effettuato ricerche su internet, dove è possibile anche trovare consigli su come procurarsi e assumere questi medicinali. Da qui un ulteriore allarme sui possibili effetti che certi messaggi via internet possono avere su ragazzi e ragazze.
«È un rischio serio, legato a cosa si comunica e a chi si comunica. A prescindere dal caso specifico di Fedez, occorre che gli influencer si ricordino che hanno anche delle responsabilità: è facile avere successo senza responsabilità, mentre bisogna stare attenti a ciò che si dice, specie se si ha un grande seguito. In ogni caso, mi stupisco sempre di come queste persone pensino che il loro successo, ottenuto tramite i social, sia duraturo mentre è effimero: non sono certi i Beatles!».
A proposito di responsabilità, i giovani sono vittime o protagonisti dei social e delle azioni che compioni tramite le piattaforme?
«Io in realtà penso che sia il caso di responsabilizzare maggiormente i giovani in tutto ciò che fanno, compreso l’uso dei social. I ragazzi di oggi non sono quelli di una volta: è sotto gli occhi di tutti, tranne che delle istituzioni. Una bambina di 11 anni oggi frequenta la stessa scuola di suo nonno, lo stesso edificio con la stessa didattica: non è più pensabile, è anacronistico. Oggi gli adolescenti fanno le 4 del mattino in discoteca e ai 16enni è permesso di votare nei gazebo alle primarie di un partito, allora mi chiedo: perché non abbassare l’età della maturità da 18 a 16 anni? È giusto che i giovani siano responsabilizzati per tutto ciò che fanno, dall’uso dei social alle conseguenze delle loro azioni, anche da un punto di vista del codice penale, modificando le norme attuali. Se il calendario dell’età evolutiva è cambiato, occorre modificare anche le leggi».
Ma quindi cosa ne pensa dell’idea di alzare l’età minima per l’accesso ai social, di cui ha parlato recentemente l’Autority per l’infanzia, portandola da 14 a 16 anni?
«Io li vieterei addirittura, ma non in base a un semplice criterio di età: semplicemente ne impedirei l’uso e la presenza nelle scuole. Sembra rivoluzionario ma si tratta di creare o ricreare delle zone franche, dove i social non devono esserci».
Finora i divieti sono stati fortemente criticati. Persino l’idea di TikTok, che ha annunciato di voler introdurre un blocco dopo 60 minuti in cui si è collegati, è stata criticata. Occorrono quindi leggi diverse o un’educazione differente?
«Occorre un’educazione all’uso consapevole e responsabile. Ma naturalmente è una strada complicata. Ormai la “torta” è pronta, è fuori dal forno: possiamo provare a decidere di mangiarne poca, di fare una dieta, ma è molto difficile. Il problema non è solo il minutaggio, il tempo trascorso online, ma la sicurezza dei dati in rete. Se al Parlamento europeo hanno vietato TikTok a tutti i dipendenti ci sarà un motivo, no? Senza contare i problemi in termini di salute mentale».
I dati indicano anche un aumento dei disturbi psicologici, in particolare ansia e depressione, tra i giovani. Da un po’ di tempo, inoltre, i social e le app hanno iniziato a concentrarsi su dati personali sulla salute mentale degli utenti. Come spiega Bernardi, il presidente di Federprivacy, probabilmente non perché si interessano della nostra salute e neanche per la ricerca scientifica, ma piuttosto perché sono informazioni che possono essere preziose per i loro scopi. Quanto contano i social sullo stato di benessere mentale?
«Sicuramente il tempo trascorso online ha un peso enorme, ma il problema è che non solo è aumentato in pandemia e non è diminuito dopo la fine dell’emergenza, ma anzi è diventato ancora maggiore e le previsioni sono preoccupanti. Io temo una vera “tempesta”: la più grande pandemia sarà quella dell’intelligenza artificiale, che farà morti mentali a miliardi».
In questo ambito fa discutere il caso di ChatGPT. Cosa ne pensa?
«La tecnologia offre grandi possibilità, ma anche pericoli. Il caso ChatGPT è significativo: uno strumento che permette di scrivere testi in modo personalizzato, di elaborare una tesi o un’arringa in tribunale, al costo di 20 dollari. Chi si affiderebbe, in futuro, a un medico o altro professionista che si è laureato grazie all’aiuto dell’AI? Questo non significa negare il futuro o il presente, né tornare al motore a vapore, ma bisogna trovare un equilibrio che permetta di non perdere libertà, creatività e innovazione umana. È da tempo che l’uomo viene facilitato dal progresso, basti pensare al passaggio dalla scrittura con la stilografica a quello con la macchina per scrivere, ma l’evoluzione finora non aveva totalmente distrutto l’iniziativa privata. Occorre buon senso».
Sembra più facile a dirsi che a farsi. Da dove si può iniziare?
«Il consiglio è ricordare che la tecnologia ci offre grandi potenzialità e grandi rischi, quindi occorre educare a una cultura diversa. Come detto, dalle elementari al liceo io toglierei i cellulari in classe e ricomincerei dalla base: a parlare. Si deve tornare a parlare col compagno, senza mandargli un messaggino».
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