Il parrucchiere ti ha fatto un nuovo taglio di capelli, e una tua amica ti ha già detto che stavi meglio in lungo, gettandoti nello sconforto. Una collega ti ha redarguito in ufficio davanti a tutti, e avresti voluto risponderle per le rime, ma la rabbia ti ha paralizzato la lingua...
Gestire le emozioni: nessuno ce lo insegna, e spesso finiamo per esserne dipendenti. Siamo condizionati da ciò che pensano gli altri – o da ciò che noi crediamo pensino – ripetiamo gli stessi errori, rimuginiamo su fatti successi tanto tempo fa. Perché non riusciamo a liberarci dalla dipendenza emotiva? Eppure i modi per separare la considerazione che abbiamo di noi stessi dal giudizio altrui, per riuscire ad apprezzarci per come siamo e vivere serenamente ci sono.
«Un bambino diventa fisicamente indipendente in modo naturale e spontaneo: cresce, impara a camminare, a giocare, ad andare a scuola», dice Lucia Giovannini, membro dell’American Psychological Association e che ha scritto numerosi best seller dedicati all’argomento, tra cui Crea la vita che vuoi (Sperling & Kupfer). «Raggiungere l’indipendenza emotiva, invece, non è altrettanto facile e automatico. È un processo molto più lungo e complesso, che spesso non si conclude nemmeno con l’età adulta».
Nel fiume della nostra mente scorrono tanti pensieri, emozioni, ricordi, immaginazione. E anche pensieri... sui nostri pensieri: non solo siamo preoccupati o arrabbiati, abbiamo paura della nostra rabbia, vergogna di aver paura della rabbia e così via, in un processo infinito.
«La bella notizia è che i pensieri si possono cambiare, attraverso il dialogo con la nostra mente. Anche quando questi sono generati dalle relazioni con gli altri», continua la dottoressa Giovannini, che è anche co-direttrice dell’Istituto italiano di neurosemantica.
La necessità di conformarsi
Ma da dove nasce la dipendenza psicologica? «L’educazione gioca un ruolo chiave», sottolinea Lucia Giovannini. «Non solo quella ricevuta in famiglia, ma anche quella che ci portiamo dietro da secoli di evoluzione». Per i nostri antenati, stare in una tribù garantiva la sopravvivenza. Se uno violava le regole o le convenzioni del gruppo, veniva messo al bando, rischiando di non farcela da solo, in una natura ostile.
«Questo meccanismo permane nella società: c’è chi taglia i rapporti col figlio omosessuale e chi ostacola la carriera dell’impiegato poco ossequioso. Dalla consapevolezza di questa possibilità di “essere esclusi”, che risiede nella parte più antica della nostra mente (il cervello rettiliano), deriva la paura profonda del giudizio degli altri: andiamo in cerca, automaticamente, dell’approvazione del gruppo perché stare in un’organizzazione sociale ci fa sentire protetti e “dalla parte giusta”, spingendoci a conformarci e a fare quello che gli altri si aspettano da noi».
Tanti giudici implacabili
Se non ci si adegua, il rischio è di passare per rompiscatole, per quello che crea problemi, ed essere guardati male da colleghi, amici, compagni di scuola. Isolati.
«La tendenza ad assecondare l’andazzo anche se non è quello che vorremmo è comprensibile, ma alla lunga dannosa», avverte però l’esperta. «Per noi, perché non riusciamo a essere noi stessi. Ma anche per l’ambiente che ci circonda: innovazione e creatività emergono solo quando si prova ad andare controcorrente rompendo gli schemi».
Quest’operazione di conformazione avviene anche nel privato: «Ci sono giovani condizionati dalle tradizioni familiari e dal giudizio dei parenti, per esempio nella scelta di convivere senza sposarsi o di iscriversi a Filosofia e non a Legge, nel modo di vestirsi o nelle amicizie da frequentare. “Regole” che vengono portate avanti spesso tradendo se stessi e le proprie aspirazioni e i propri sogni, pur di avere l’accettazione degli altri», dice ancora la dottoressa Giovannini.
La dipendenza psicologica, comunque, non nasce solo dalla necessità di rimanere ancorati a un gruppo. È anche il riflesso delle relazioni sulla nostra identità.
«Fin da piccoli, il giudizio che ci siamo fatti di noi stessi è passato attraverso il parere degli altri: la maestra che diceva di noi “è bravo, non è bravo, è discontinuo...”, la mamma che ci confrontava “è più bellina sua sorella, è più diligente suo fratello”, l’istruttore di nuoto che incoraggiava quelli che finivano prima le vasche... Così abbiamo maturato la sensazione che l’opinione sociale sia il metro per stabilire il nostro valore e da questo finisce per dipendere anche la stima che abbiamo di noi stessi».
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Impara a perdonarti
«Da quanto detto sopra, è chiaro che l’indipendenza emotiva consiste innanzitutto nel rompere le regole sociali che non sentiamo congeniali, che non ci permettono di vivere come vorremmo e che seguiamo solo per compiacere gli altri», chiarisce la dottoressa Giovannini. Ma anche nel convincersi che l’unico referente del nostro valore dobbiamo essere noi. Come?
«Cominciando con l’amarci per chi siamo e non per quello che facciamo», continua l’esperta. «Possiamo fare errori, ma non per questo siamo sbagliati. Possiamo fallire, ma non per questo siamo un fallimento. La differenza tra essere e fare ci deve sempre essere chiara, perché ci permette di perdonarci e di correggerci. È necessario un dialogo interiore: essere più pazienti e più gentili con noi stessi».
Non basta, però: per raggiungere l’autonomia psicologica bisogna anche manipolare i nostri modi di pensare. Meglio ancora: liberarli da connotazioni negative (e paralizzanti). Come si fa a dimostrare il proprio valore se non si riesce a esprimerlo? Come si fa a farsi rispettare se nella testa è presente un dialogo interiore che limita ogni iniziativa?
Non farti usare dalle emozioni
Debora Conti, trainer di programmazione neurolinguistica (Pnl) e coach nel suo libro I segreti dell’indipendenza emotiva (Sperling & Kupfer editore), ha messo a punto un kit di strategie per attivare cambiamenti profondi comunicando con la nostra mente inconscia e governando finalmente i nostri comportamenti, le abitudini e le relazioni.
«La mente inconscia (o cervello limbico, le aree cerebrali che gestiscono le emozioni e le abitudini) ci permette di apprendere e poi “dimenticare” a livello cosciente ciò che abbiamo acquisito: si pensi a quando impariamo a guidare. Sembrava difficilissimo, oggi lo facciamo senza pensarci» spiega Debora Conti.
«Anche le emozioni rispondono ad automatismi appresi nel tempo: una sorta di pilota automatico che ci fa reiterare certi comportamenti, senza che ce ne accorgiamo. Per spezzare questo meccanismo, che poi ci rende succubi di tutta una serie di situazioni, bisogna imparare a osservare le emozioni da tutti i punti di vista e a prenderne le distanze».
Anche se sono spesso catalogate come positive o negative, in realtà le emozioni negative non esistono. Lo pensiamo solo noi. Per esempio la rabbia: è un moto di ribellione, che può essere utile per non farsi mettere i piedi in testa. Mentre la paura serve a mantenerci vigili sui reali pericoli della vita. La tristezza profonda è un sentimento che si dimostra proficuo quando ci aiuta a dire addio alla persona amata che abbiamo perso.
«L’importante è utilizzare le emozioni senza farsi utilizzare da esse... Per poterlo fare bisogna sapere come delegare il cambiamento alla mente inconscia», sottolinea la coach.
Parla al passato
Insomma, la mente inconscia ha bisogno delle parole giuste per essere guidata a fare ciò che vogliamo noi.
«La prima tecnica è parlarle al passato», spiega Debora Conti. «Se ci diciamo “È inutile, sono destinato a fallire su tutta la linea, non prenderò mai l’aumento” la mente non capirà mai che, in realtà, vogliamo cambiare. Invece bisogna pensare: “Mi sentivo destinato a fallire e credevo di non meritarmi l’aumento”. È come ammettere a noi stessi che non vogliamo più fare, dire, credere, provare certe cose, in altre parole presupponiamo che ora sia tutta un’altra storia, abbiamo pronte altre energie per andare oltre a questo empasse. Per farlo, bisogna parlare al passato di tutto ciò che vogliamo cambiare – reazioni emotive, convinzioni, comportamenti – esercitandosi a ripeterselo o scrivendolo su un quaderno, raccontandoli al sistema nervoso come se fossero trascorsi, cioè superati».
E pensati un’altra
Ci può essere d’aiuto uscire da noi stessi e immaginare che la situazione debba affrontarla un’amica: come la sosterremmo? Cosa le diremmo per tranquillizzarla? Cosa ammireremmo di lei?
E se proprio una cosa ci viene così così, per esempio tra gli amici non siamo i più bravi a tennis, pensiamo alle cose che facciamo meglio di loro: cucinare una torta, portare a termine i compiti nei tempi previsti...
Spingiamo la mente a ricordarsi le nostre qualità, invece di incistarla sulle pecche. A vantaggio dell’indipendenza emotiva.
Autonomi, giorno dopo giorno
L’indipendenza nasce dalla capacità di governare le nostre emozioni.
Lucia Giovannini suggerisce un esercizio che dimostra come le giornate possono andare bene o male anche “dirigendo” il nostro stato d’animo. Ecco come.
- Richiama alla mente due giornate recenti, una piacevole e l’altra sgradevole. Quali elementi le hanno rese tali?
- In che modo hai contribuito con il tuo atteggiamento? Scrivi le emozioni, le azioni e i pensieri positivi che hai messo in campo nella giornata piacevole e fai lo stesso con quelli a cui hai lasciato spazio nella giornata sgradevole.
- Ogni mattina scegli gli stati d’animo migliori per affrontare al meglio la giornata: non è semplice essere padroni del proprio umore, ma esserne consapevoli che puoi farlo ti aiuta a essere meno influenzabile dagli eventi.
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Articolo pubblicato sul n. 15 di Starbene in edicola dal 27/03/2018