“È un dolore acuto, simile a punture di spillo, invalidante al punto da compromettere qualsiasi attività quotidiana, dal lavoro alle relazioni affettive. La mia vita è stata stravolta. Sono stata costretta ad abbandonare gli studi perché non potevo rimanere seduta a lungo, per non parlare della coppia, un disastro. Ma non volevo arrendermi e ho cominciato un lungo pellegrinaggio da ginecologi e medici vari. Alcuni mi dicevano che il problema si sarebbe risolto con una gravidanza ma il solo pensiero di avere un rapporto sessuale, con il dolore che causava, mi paralizzava. Altri medici attribuivano la patologia allo stress, facendomi sentire colpevole. La responsabilità, però, non era mia, ma di questa malattia, fino a pochi anni fa non diagnosticata”.
Basterebbe la testimonianza di Elena Tione, ex paziente e poi fondatrice, nel 2010, di VulvodiniaPuntoInfo Onlus, di cui è presidente, per capire la gravità della vulvodinia e il paradosso della scarsa attenzione da parte della medicina. Al punto che la malattia non è nemmeno inserita nei Lea (i Livelli essenziali di assistenza) e non gode, quindi, di nessun sostegno pubblico. L’Associazione, nata per supportare tutte le donne che si trovano alle prese con questa patologia, nel 2013 ha lanciato una petizione per il suo riconoscimento.
Vulvodinia, diffusa ma “invisibile”
Non stiamo parlando di una malattia marginale, perché colpisce una donna su sette, dal 10 al 18%, soprattutto nella fascia tra 20 e 40 anni, in modo quasi invalidante.
Per vulvodinia si intende un dolore cronico alla vulva, i genitali femminili esterni e i tessuti che circondano l’accesso alla vagina. Continuo o intermittente, si caratterizza per essere bruciante, pungente con irritazione e secchezza, sensazione di abrasione e percezione di tagli alla mucosa. È evidente durante i rapporti sessuali, una visita ginecologica o semplicemente stando seduti o facendo attività fisica. Perfino il contatto con la biancheria diventa un fastidio.
Eppure, nonostante queste caratteristiche e la sua diffusione, è quasi una malattia “invisibile”: molti ginecologi la liquidano come psicogena e, quindi, di competenza dello psicologo. Secondo una recente indagine condotta in Italia su 496 donne di cui 439 con diagnosi di vulvodinia confermata da uno specialista, nella maggioranza dei casi sono stati necessari 3 o più consulti medici prima di poter dare un nome alla propria condizione. Ciò comporta un ritardo diagnostico di circa 5 anni dall’esordio dei sintomi all’inizio della terapia corretta, e concorre alla cronicizzazione del disturbo.
Vulvodinia, in arrivo una soluzione innovativa
Assume quindi grande rilevanza la scoperta di una nuova opzione terapeutica. Di questo si è parlato a un convegno tenutosi alla Camera dei Deputati, sotto l’egida dell’Accademia di Salute pubblica (Public Health Academy) e con il supporto incondizionato di Techdow. L’evento ha visto riuniti i rappresentanti del mondo istituzionale della comunità scientifica e dell’associazionismo, per fare il punto su questa malattia ancora così poco conosciuta e sui bisogni clinici, assistenziali e sulle opzioni terapeutiche.
Tra le ultime c’è un preparato nuovo a base di spermidina veicolata da acido ialuronico, un gel per uso topico presto disponibile nel nostro Paese, che ha dimostrato di ridurre il dolore del 76% e il fastidio durante i rapporto sessuali del 50%. È il primo prodotto sviluppato e testato specificamente per il trattamento della vulvodinia.
Un’attesa che dura da due anni
Una proposta di legge per l’inserimento della vulvodinia nei Lea e il suo riconoscimento quale condizione cronica e invalidante è stata depositata già due anni fa in entrambe le Camere.
«È cruciale far ripartire l’iter per la sua approvazione e rendere così le cure accessibili su tutto il territorio nazionale », sottolinea il professor Filippo Murina, direttore scientifico dell’Associazione Italiana Vulvodinia Onlus, responsabile Servizio di Patologia del Tratto Genitale Inferiore presso l’Ospedale V. Buzzi, a Milano. Che ricorda come, in Italia, esistano pochi centri di cura, sparsi in modo difforme: «Quasi esclusivamente operatori singoli in strutture private. Ce ne sono una decina in Lombardia, nessuno in Sardegna e poche unità nel Mezzogiorno», specifica l’esperto.
Vulvodinia, perché colpisce: non una ma tante cause
Come si arriva a questa malattia, così insidiosa? «A oggi non è nota l’esatta origine, ma si conoscono alcuni elementi importanti sulla sua insorgenza, spesso dovuta a cause che interagiscono tra loro», spiega Alessandra Graziottin, direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia medica dell’Ospedale San Raffaele Resnati di Milano. In molte donne è stata riscontrata una predisposizione genetica alle infiammazioni.
In queste pazienti le fibre del nervo della zona vulvare e vestibolare sono più numerose e voluminose. Al disturbo possono concorrere anche un parto con lacerazioni, lesioni o irritazioni ai nervi che circondano la regione vulvare, allergie o ipersensibilità localizzata della pelle e sbalzi ormonali. Alessandra Graziottin sottolinea, inoltre, l’importanza di una diagnosi precoce, in modo che il dolore non si cronicizzi. Senza dimenticare che molte donne rinunciano alle cure, perché non sono in grado di permettersele o poiché ci sono pochi specialisti che se ne occupano.
Una terapia a tutto campo
Dato il carattere multifattoriale della patologia, il dottor Filippo Murina ritiene che l’approccio debba essere multidisciplinare, con il contributo, oltre che del ginecologo, di altri specialisti quali ostetrici, osteopati, nutrizionisti e gastroenterologi.
«Inoltre vanno impiegati più strumenti, dai prodotti topici ai farmaci, dalle infiltrazioni ai trattamenti fisico-riabilitativi, dalla psicoterapia alla dieta. E sono fondamentali anche le norme di comportamento come indossare biancheria intima bianca, pantaloni ampi e comodi, usare detergenti intimi adeguati, non trattenere l’urina ed evitare attività che esercitano una pressione sulla vulva come andare in bicicletta o a cavallo. Andrebbe definito un percorso personalizzato sulla singola paziente con la combinazione di diverse opzioni terapeutiche», puntualizza l’esperto.
Il problema dei costi
Tutto ciò però è molto costoso perché manca un contributo da parte dello Stato. Per l’iter diagnostico-terapeutico si può arrivare a spendere dai 20mila ai 50mila euro.
La proposta di legge redatta dal Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo può rappresentare una svolta. Oltre al riconoscimento della malattia tra quelle croniche e invalidanti e il suo inserimento nei Lea, prevede la creazione, in ogni regione, di almeno un centro specializzato nella cura. Un passo in avanti per far sentire le donne meno sole.
Un luogo di cura ad hoc nelle Capitale
È attivo da metà dicembre 2023, presso l’Ospedale Isola Tiberina di Roma, uno dei pochi centri a livello nazionale per la terapia della vulvodinia. La referente, la ginecologa Nicla Toni (sotto la direzione del primario Anna Franca Cavaliere), promotrice del progetto, è affiancata da uno staff di otto specialisti fra osteopata, gastroenterologo, psicologo, fisioterapista, ostetrica e urologo.
«Dopo un mese dall’apertura erano già venute una trentina di donne dai 16 ai 57 anni, tutte dopo un giro estenuante tra vari ginecologi incapaci di diagnosticare e curare la malattia», racconta l’esperta.
Come mai la vulvodinia è così estranea ai ginecologi? «La maggior parte sottovaluta il problema perché non lo conosce, perciò è come se non esistesse. Alcune donne arrivano qui con un senso di colpa, come se la malattia dipendesse da loro. Bisogna fare, allora, un lavoro anche psicologico per indurle a non mollare la terapia. È dura, ma questo centro rappresenta un’isola di speranza».
Fai la tua domanda ai nostri esperti