Era il 1997 (sono passati quasi vent’anni!) quando il ricercatore cinese Yuk Ming Dennis Lo, genetista della Chinese University di Hong Kong, scoprì casualmente, in un campione di sangue, tracce di Dna fetale, che “nuotavano” libere nel plasma materno. La scoperta inaugurò la nuova era dei test prenatali non invasivi (i NIPT), che negli ultimi anni sono stati perfezionati al punto da arrivare a sostituire, nella grande maggioranza dei casi, i classici screening invasivi, come l’amniocentesi e la villocentesi.
Queste tecniche diagnostiche sono validissime, ma non del tutto prive di rischi: la prima, infatti, provoca aborto nello 0,5% dei casi, la seconda in una donna su cento. E non è poco, se si pensa che in Italia sono aumentate le cosiddette “gravidanze preziose”: quelle delle quarantenni al primo figlio, di chi è in attesa di gemelli (spesso frutto di tecniche di procreazione assistita) o è incinta dopo anni di tentativi, interruzioni spontanee, stress, stimolazioni ormonali e trattamenti farmacologici di ogni tipo. Ovvio che in queste situazioni delicate, la mamma non voglia correre alcun rischio. Ed esplorare il Dna del piccolo in poche gocce di sangue è oggi il miglior metodo a zero “effetti collaterali”.
IL PIÙ AFFIDABILE
«Attualmente in Italia esistono diversi test sul Dna fetale, ma solo 5 sono riconosciuti dalle linee guida del Ministero della Salute», esordisce il professor Domenico Arduini, ordinario di ostetricia e ginecologia all’università Tor Vergata di Roma. «Quello che ha maggior validazione scientifica, perché testato su grandi numeri, si chiama G-Test. L’analisi rivela se il nascituro ha un alto rischio oppure un basso rischio di anomalie cromosomiche. Finora, ha analizzato il plasma materno di oltre 800.000 future mamme ed è stato oggetto di un ampio studio condotto dall’équipe cinese del professor Yong Zhang.
La ricerca è stata pubblicata nel 2015 e ha coinvolto 150.000 donne al fine di calcolare il suo margine di errore. Ebbene, la percentuale di falsi negativi è pari allo 0,8%, mentre i falsi positivi rappresentano lo 0,05% di tutti i campioni analizzati». Se a questo esame viene poi abbinato un altro test non invasivo, come la translucenza nucale (l’ecografia tra la 11a e la 13a settimana di gestazione, mirata a misurare lo spessore della nuca del bambino) la probabilità che la diagnosi di un bimbo sano sia esatta sfiora quasi il 100%. Mentre solo 5 donne su mille incorrono in quello spiacevole “incidente di percorso” legato a un falso allarme: l’amniocentesi, sempre prescritta in caso di esito ad “alto rischio”, rivela che in realtà il piccolo non ha ereditato alcuna alterazione cromosomica.
CHE COSA SI LEGGE NEL DNA
Ma che cosa è possibile vedere nel sangue materno? «Analizzando il Dna fetale, è possbile identificare le famose trisomie, che da sole rappresentano il 50% di tutte le malattie cromosomiche», risponde il professor Arduini. «Mi riferisco alla trisomia 21 (che si associa alla sindrome di Down), alla 18 (legata alla sindrome di Edwards) e alla 13 (sindrome di Patau), che sono le più diffuse, ma anche alla 22, alla 16 e alla 9. L’esame inoltre è in grado di segnalare anomalie rare, ma non rarissime, dei cromosomi sessuali, come la sindrome di Turner, che interessa il sesso femminile, quella di Jacobs, dell’X fragile o di Klinefelter, che prendono di mira il sesso maschile.
Inoltre, il test può individuare le cosidette “microdelezioni”, piccoli errori di trascrizione dei geni, implicati nell’insorgenza di diverse malattie e che sono oggetto di continue scoperte. Si è visto, ad esempio, che il diabete ereditario, una malattia genetica, è associato a un pool di delezioni cromosomiche».
UN ESAME MADE IN ITALY
Un altro vantaggio del G-Test, rispetto agli altri presenti in Italia, è il fatto che i campioni, prelevati in ogni città, entro 24 ore raggiungono il laboratorio di genetica molecolare dello spin off “Bioscience” dell’Università di Tor Vergata. E qui vengono analizzati secondo la tecnologia di sequenziamento del Dna di nuova generazione (Next Generation Sequencing), i cui dati vengono elaborati in tempo reale da sistemi bioinformatici.
«Si tratta di una garanzia in più, rispetto ad altri campioni che vengono spediti all’estero, in Svizzera, Germania o California, per venire analizzati», dichiara Il professor Giuseppe Novelli, rettore di Tor Vergata e specialista in genetica medica. «Università vuol dire sicurezza, ricerca, innovazione. E un’affidabilità maggiore dei laboratori privati. Tant’è che da fine maggio a oggi i nostri genetisti hanno scoperto 14 nuove delezioni».
ISTRUZIONI PER L’USO
Il G-Test si può effettuare dalla decima settimana di gestazione, ma nel 2% dei casi nel campione di plasma non c’è una quantità di Dna fetale sufficiente (quindi, si ripete). Viene eseguito anche negli studi dei ginecologi, che lo inviano in speciali kit. Il costo è di 680 €, ma l’amniocentesi di conferma, in caso di alto rischio, è a carico del SSN. È stato messo a punto dal Bioscience Institute di San Marino, che ha acquistato tecnologie e diritti dalla cinese Bgi (Beijing Genomics Institute), il più grande colosso mondiale di genomica.
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Articolo pubblicato sul n. 10 di Starbene in edicola dal 23/2/2016