di Valentino Maimone
Orari severi, regole rigorose. E poi vetri divisori, camici sterili da indossare, mascherine, cappellini. Per i familiari dei pazienti, i reparti di terapia intensiva aggiungono sofferenza a sofferenza. Perché sono i più “blindati” del mondo: secondo i dati resi noti durante l’ultimo congresso nazionale della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti), amici e parenti hanno libero accesso nel 70% delle strutture svedesi, nel 32% di quelle statunitensi, nel 23% di quelle inglesi e nel 14% di quelle olandesi. In Italia solo il 2% delle terapie intensive non mette limiti, tutte le altre non lasciano superare le due ore di visita al giorno. Niente deroghe, neanche se il ricoverato è un bambino o sta morendo. Perché tutto questo rigore?
Paura delle infezioni
«Fino a qualche tempo fa, si pensava che la principale ragione fosse l’esigenza di tutelare il paziente dal rischio di infezioni portate dall’esterno», spiega il dottor Luigi Riccioni, responsabile del gruppo di studio di Bioetica Siaarti. «Ma la ricerca scientifica ha ormai dimostrato che liberalizzare l’accesso ai reparti di rianimazione non è affatto pericoloso, anzi: è benefico sia per loro che per chi li va a trovare. Al contrario di quanto si pensa, infatti, il pericolo di infezioni non aumenta, mentre si riducono notevolmente gli indici ormonali di stress, e quindi i rischi di complicanze cardiovascolari per il paziente». Inoltre la qualità complessiva del ricovero migliora ed è più facile che si instauri un rapporto di fiducia tra la famiglia e i medici curanti.
Pregiudizi duri a morire
Che cosa impedisce che i reparti di terapia intensiva si aprano totalmente al pubblico? «Ci sono carenze di organico e sopravvivono i pregiudizi di alcuni medici non convinti della validità di questa scelta», ammette Riccioni. «Ma bisogna riuscire a diffondere una nuova filosofia di cura, come vorrebbe fare una proposta di legge presentata nel 2013 sulla riforma dei reparti di terapia intensiva. In ogni caso gli operatori dovrebbero ricevere una formazione specifica per la comunicazione, la gestione dei conflitti, la capacità di riconoscere e affrontare i bisogni, le ansie e lo stress dei familiari. Le sole competenze cliniche ormai non bastano più.
L’importante è lavarsi le mani
«Il visitatore è un pericolo perché può “contagiare” i malati? Una bufala», dice Paolo Malacarne, responsabile dell’Unità operativa di rianimazione dell’ospedale Cisanello di Pisa. «In uno studio i ricercatori hanno prelevato i batteri da mani e narici dei visitatori prima dell’ingresso nel reparto, per confrontarli con quelli che causano infezioni nei malati. Risultato? Erano completamente diversi». Una sola cosa conta: «Lavarsi le mani, con acqua e sapone o con gli appositi gel antisettici, prima dell’ingresso in terapia intensiva e all’uscita. Salvo casi specifici (gravi immunodepressioni), nessuna limitazione (orari compresi) alle visite si giustifica con il rischio infettivo».
Fai la tua domanda ai nostri esperti
Articolo pubblicato sul n. 50 di Starbene in edicola dal 01/12/2015