Quando entrò in vigore, il 15 marzo del 2010, la legge n. 38 fu riconosciuta come un modello di eccellenza, che poneva l’Italia all’avanguardia in Europa e nel mondo.
«Per la prima volta una norma tutelava e garantiva l’accesso alla terapia del dolore da parte del cittadino, disciplinando un problema che interessa 15 milioni di italiani. Purtroppo, però, a 9 anni di distanza, la legge 38 resta di fatto in gran parte inapplicata, oltre che ancora poco conosciuta da medici e pazienti», osserva Giuliano De Carolis, anestesista e presidente di Federdolore, società italiana clinici del dolore.
Abbiamo cercato di capire quali sono i motivi di questa situazione e che cosa può fare il cittadino-paziente per tutelarsi.
L’istituzione dei centri dedicati
Partiamo dalla legge: «I suoi punti principali sono l’istituzione di reti nazionali per le cure palliative e per la terapia antalgica, l’obbligo che la misurazione del dolore sia inclusa nella cartella clinica del paziente, la semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali, la formazione specifica del personale medico e sanitario», spiega De Carolis.
«Il problema è che, a oggi, l’applicazione della normativa è a macchia di leopardo. In alcune Regioni il sistema funziona meglio, in altre non funziona affatto».
I motivi? «Anzitutto la scarsa informazione, anche tra i medici di medicina generale: non sempre orientano il paziente verso gli spoke, cioè quelle strutture di primo intervento che dovrebbero smistare i casi più seri verso gli hub, le strutture di trattamento dei casi più complessi. Poi, quando mancano i fondi, tutto è lasciato alla buona volontà di medici e operatori sanitari. Infine non esiste un sistema di sanzioni né un organo che vigili sull’applicazione della legge».
Che cosa si sta facendo per migliorare la situazione? «È stata presentata alla Commissione Affari Sociali una risoluzione che impegna il Governo a svolgere azioni concrete per la terapia del dolore. Ed è stato introdotto un meccanismo che consente di misurare il lavoro di ciascun centro per la terapia del dolore», sottolinea De Carolis.
Il disorientamento dei pazienti
«Nessun individuo deve sentirsi costretto a sopportare il dolore cronico. Che sia mal di schiena, cefalea o fibromialgia, la legge dà diritto a essere curati con terapie specifiche», ricorda Valeria Fava, referente del Tribunale dei diritti del malato di Cittadinanzattiva ed esperta della legge n. 38.
«Purtroppo ancora poche persone sanno che nelle Asl e negli ospedali ci dovrebbero essere gli ambulatori dedicati ai pazienti con dolore cronico. Occorre far valere il proprio diritto a una terapia idonea, basata su farmaci e trattamenti ad hoc. Cure palliative e terapia del dolore fanno parte dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, cioè quelle prestazioni che il Ssn deve garantire gratuitamente o con il ticket, su tutto il territorio nazionale», precisa Valentina Fava.
I doveri dei medici
L’obbligo di indicare nella cartella clinica la sofferenza che il paziente prova è un elemento davvero fondamentale della normativa: «Il dolore si può valutare grazie ad apposite scale o con adeguati strumenti di misurazione. Ciò consente di intervenire con la terapia farmacologica e tecniche specifiche, monitorare i risultati dei trattamenti e modificare terapie e interventi antalgici», spiega Fava.
Altro diritto fissato per legge: «Oggi il medico può prescrivere i farmaci oppiacei sulla ricetta come qualunque medicinale. E, se è necessario proseguire la terapia anche dopo un ricovero, questa deve essere assicurata al momento della dimissione: il medico deve consegnare i medicinali almeno per il primo ciclo di cura. Non solo: oltre all’assistenza sanitaria, la legge assicura al paziente e alla sua famiglia anche un sostegno psicologico e assistenziale», precisa Fava.
Come farsi valere
È raro, ma può accadere che il medico non voglia prescrivere il trattamento presso uno spoke o non ne sappia indicare uno. In questo caso, non resta che rivolgersi a un altro medico.
«Oppure può accadere che in ospedale si venga dimessi di sabato, quando la farmacia della struttura è chiusa, il medico di famiglia non è disponibile e quello di guardia non si assume la responsabilità. Consiglierei di ricorrere anzitutto alla caposala e, se necessario, risalire fino alla direzione sanitaria dell’ospedale», conclude Valentina Fava.
I numeri del dolore cronico
- 20%
Secondo Cittadinanzattiva due persone su 10, tra chi soffre di dolore cronico, hanno dovuto cambiare lavoro, il 14-17% lo ha perso, il 28% si è visto modificare la responsabilità della propria mansione. - 18%
È questa la quota dei pazienti con dolore cronico che si sente costantemente in uno stato di abbandono e di privazione del proprio ruolo all’interno della famiglia. - 22%
Il dato si riferisce ai pazienti ai quali è stata diagnosticata anche una forma di depressione.
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Articolo pubblicato sul n. 31 di Starbene in edicola dal 16 luglio 2019