Agrumi, pomodoro, caffè, menta, cioccolato, cipolla, aglio: i condannati senza appello per decenni e banditi dalle tavole delle persone affette da reflusso gastroesofageo possono tornare nella dieta. Assolti per insufficienza di prove. Perché, come dicono le nuove linee guida dell’American College of Gastroenterology, non esiste evidenza scientifica che questi alimenti siano in grado di produrre i tipici sintomi da reflusso, cioè bruciore, dolore alla bocca dello stomaco e retrosternale, insieme al rigurgito acido.
«Ci sono persone che soffrono del disturbo e che riescono a bere la spremuta al mattino o a mangiare il cioccolato senza avere sintomi, mentre altre non si possono avvicinare alla menta o all’aglio», commenta il dottor Edoardo Vespa, gastroenterologo all’Ospedale San Raffaele di Milano.
«Quindi, la famosa dieta di rimozione di intere categorie di cibi “a rischio” oggi è superata, l’alimentazione va personalizzata caso per caso. Anche perché un regime restrittivo può privare l’organismo di sostanze importanti, esponendolo a carenze, con un impatto psicologico rilevante per chi deve astenersi da certi cibi». Persino l’alcol, che di solito viene bandito senza battere ciglio dalle diete è stato riabilitato: un uso moderato di vino (125 ml, cioè un bicchiere al giorno) non presenta controindicazioni, dicono gli esperti.
«Anche in questi casi c’è chi presenta sintomi con il vino rosso e non con il bianco, e viceversa, a riprova della soggettività del reflusso», sottolinea il gastroenterologo.
I veri nemici
«Maggiore attenzione va posta, paradossalmente, con i grassi e le proteine, persino quelle del pesce e della carne bianca, di solito considerati alimenti non nocivi. Infatti, chi soffre di un’importante sintomatologia da reflusso può avere benefici riducendo proprio il valido pesce azzurro. In questi casi, infatti, il problema è l’abbinamento fra proteine e grassi. Cibi molto proteici e ricchi di lipidi (come i latticini, ma anche certe carni o pesci) formano la combinazione più nociva per l’apparato digerente, che rallenta lo svuotamento del contenuto acido dello stomaco verso il duodeno e, stazionando più a lungo, si facilita la sua risalita nell’esofago».
Due tipi di acidità
Le linee guida internazionali hanno classificato i tipi di reflusso.
«Quello passeggero e lieve, che si presenta occasionalmente in certi periodi dell’anno, con meno di due episodi alla settimana, può essere gestito dal medico di base con farmaci sintomatici da banco, come gli antiacidi o quelli che formano una sorta di tappo per impedire il reflusso», spiega il dottor Vespa. «Se, invece, questi rimedi di primo livello non bastano, occorre andare dallo specialista che prescriverà gli inibitori della pompa protonica, indicati nei casi in cui gli episodi di reflusso sono frequenti e in modo non occasionale, ma duraturo nel tempo».
Questo tipo di farmaci ha grande successo, ma in passato alcuni studi hanno richiamato l’attenzione su chi ne fa un uso prolungato per anni, adombrando effetti collaterali, quali l’osteoporosi e persino il tumore. «La letteratura più seria e aggiornata dice che la sicurezza di queste molecole è altissima», ribatte Vespa.
«Si è parlato di osteoporosi perché gli inibitori ridurrebbero l’assorbimento di minerali quali il calcio, ma non è così. Sul tumore dello stomaco e dell’esofago sono addirittura protettivi. L’unico vero problema possibile è la disbiosi intestinale, che produce episodi di diarrea e di gonfiore. Ciò può avvenire perché i nostri acidi sono degli sterilizzanti antibatterici, e quindi un farmaco che ne abbassa la produzione può favorire una maggiore presenza di batteri intestinali. Ma anche questa evenienza può essere gestita dallo specialista».
I sintomi "strani"
Il reflusso gastroesofageo è un problema dai sintomi apparentemente facili da individuare: logico pensarci se si ha il bruciore di stomaco dopo mangiato. Eppure ancora oggi ci sono persone che corrono al pronto soccorso perché scambiano il dolore dietro lo sterno per un infarto.
«Il bruciore può essere forte, ma esistono anche i cosiddetti sintomi atipici da reflusso», racconta il nostro esperto. «Pensiamo, per esempio, alla tosse e al mal di gola, scambiati per un male stagionale, o alla raucedine (sarà stato un colpo di vento?). Persino l’orecchio può dolere perché l’infiammazione da acidità si può estendere molto in alto rispetto alla bocca dello stomaco. In questi casi, il reflusso è il sospettato numero uno, compreso quando si avverte la sensazione di un nodo in gola, che può precedere l’arrivo di un’ondata di acidi più dolorosa e infiammatoria del solito».
La mappa delle maree acide
E sono proprio i sintomi atipici o la mancanza di risposta ai farmaci tradizionali a giustificare un esame in grado di misurare le “maree acide” del nostro apparato digestivo, dandone frequenza e intensità con la massima precisione.
«Si chiama Ph impedenziometria esofagea, ed è una specie di holter del reflusso», spiega il gastroenterologo. «Lo specialista inserisce un sondino nella cavità nasale del paziente fino a farlo arrivare all’esofago, dove un sensore misura il pH locale, il movimento degli acidi e tutto quello che serve per creare una vera e propria mappa del reflusso per 24 ore (il periodo in cui va tenuto il sondino). Detto così sembra invasivo, ma la persona può mangiare e lavorare normalmente. Certo, si noterà il piccolo cavo (un millimetro) che dal naso va a un registratore indossato a tracolla. L’esame dura un giorno, notte compresa, e non è molto fastidioso».
«Mentre la Ph impedenziometria esofagea non va eseguita nei casi di reflusso lieve, la gastroscopia va fatta in chi ha avuto sintomi, anche blandi, ma ripetuti e prolungati nell’arco di dieci anni, o ha fattori di rischio importanti come il fumo o l’obesità. In questo ultimo caso va eseguita anche in assenza di sintomi a partire da 50 anni, salvo altre indicazioni», avverte il dottor Vespa. «Questo per verificare eventuali danni provocati dall’acido, come la comparsa di cicatrici nell’esofago che ne abbiano ristretto il calibro, o addirittura di alterazioni cellulari, che possono essere associate al tumore dell’esofago, note come esofago di Barrett».
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