C’è chi pensa che il dolore si debba affrontare stringendo i denti: prima o poi, passa. Ma quello di Rita Panzavolta, 56 anni, è durato ben 6 anni.
Tutto è iniziato un giorno di giugno, nel 2013, mentre stava facendo alcune fotocopie nella segreteria della scuola dove lavora, a Cesena: si è girata di scatto ed è stata stritolata nella morsa di un dolore acutissimo. «Sono rimasta senza fiato, come se mi avessero piantato un coltello nella parte destra della schiena, appena sopra il gluteo», ricorda.
Pensando che fosse una “normale” sciatica, si rivolge al medico di famiglia e si imbottisce di antidolorifici che sono però “acqua fresca”. A farle capire che c’è qualcosa che non va è Nico, il suo cagnolino: pesa meno di due chili, ma se si accuccia sulle sue cosce sembra un macigno. Con il passare dei giorni, anche i vestiti, il lenzuolo, o una carezza, diventano insopportabili, come fossero di fuoco: basta che le sfiorino la coscia perché veda le stelle.
Nessuno sapeva dare un nome al suo problema
Rita comincia a peregrinare da un ospedale all’altro, nel tentativo di trovare sollievo e dare un nome a quel dolore che non le dà tregua: la sua è una meralgia parestetica, sentenzia dopo un anno il fisiatra a cui si rivolge, e i suoi disturbi dipendono dal nervo laterale della coscia, il femoro cutaneo, che è intrappolato.
Le cure: iniezioni di analgesici, antinfiammatori per bocca, associati a dosi massicce di vitamine e integratori. Il dolore si riduce un po’, ma non scompare. Non si dà per vinta e fissa nuove visite: dal neurologo, dall’ortopedico, dal neurochirurgo. Un piccolo spiraglio sembra aprirsi nel 2015, quando si sottopone a un intervento ambulatoriale all’ospedale di Faenza per sbrigliare il nervo malato.
In realtà è solo un miraggio, seguito dal calvario di nuove visite e terapie: infiltrazioni, sedute di elettrostimolazioni, di pilates, di fisioterapia in acqua, di ozonoterapia, di radiofrequenza pulsata. Oltre alla coscia, sempre in preda a scosse e crampi, ora ha anche la schiena rigida e si muove come se camminasse sulle uova.
L’aiuto della scrittura
Il dolore le tormenta l’anima. «Sono sempre stata allegra, ma in quel periodo ero diventata schiva e chiusa in me stessa, come se un tarlo mi stesse “mangiando” pian piano il cervello», osserva. Per sopravvivere e non “diventare pazza”, comincia a scrivere le sue sensazioni su un quaderno: mettere nero su bianco quel che prova è una valvola di sfogo che le permette di prendere le distanze dalla sofferenza. Una sorta di medicina narrativa “fai da te”. Il dolore però non allenta la presa e pian piano la coscia diventa del tutto insensibile.
«Ero prigioniera in un labirinto di cui non intravedevo vie d’uscita, anche se Stefano, mio marito, e i miei due figli, mi sostenevano con tutte le loro forze», commenta la nostra protagonista.
L’intervento che le ha cambiato la vita
Sta ormai per gettare la spugna, quando, sei mesi fa, si rivolge al centro di terapia antalgica dell’ospedale di Lugo (Ravenna). Lo specialista le propone una soluzione: un neurostimolatore gangliare, un “pacemaker” capace di aggredire il dolore alla radice.
Le spiega che dovrà entrare in sala operatoria due volte: prima per fissarlo all’esterno e dopo un mese, se tutto è ok, per inserito sottopelle in modo definitivo. Rita non ha dubbi: «Sento di essere finita finalmente nelle mani giuste e accetto». Dopo l’intervento, durato 3 ore, è finalmente rinata.
«Il dolore è ridotto al minino e anche l’umore è tornato al top: sono felice e godo di tutti i piccoli gesti quotidiani che non sono più un supplizio», dice sorridendo. «Posso regolare da sola il mio pacemaker con un minitelecomando: ora il dolore lo domino io e non ne sono più schiava». Il suo prossimo progetto? Pubblicare le pagine scritte nei giorni bui, per essere vicina a chi vive un’esperienza come la sua.
Come funziona il neurostimolatore
«Il neurostimolatore gangliare è una delle soluzioni più innovative per i dolori neuropatici cronici», spiega il dottor Vidmer Scaioli, neurologo dell’Istituto Besta di Milano.
È composto da un generatore di corrente miniaturizzato e da sottili cavi conduttori, impiantati sottopelle, collegati a piccole placche collocate a contatto del ganglio del nervo malato, che funziona da centralina di controllo. Quando riceve le miniscosse, blocca la trasmissione del dolore al midollo spinale, evitando che raggiunga il cervello, riducendone così la percezione sino all’80%. L’impianto si programma dall’esterno, è di piccole dimensioni e il paziente può modificarne in autonomia la potenza con un telecomando, variandola a seconda dell’intensità del dolore.
In caso di problemi, lo si può addirittura riprogrammare a distanza: basta contattare il medico che lo resetta attraverso una rete internet specifica. Gli interventi per inserirlo (a carico del Ssn) si effettuano in centri di neurochirurgia funzionale o in unità spinali collegate a centri per la terapia del dolore.
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Articolo pubblicato sul n. 39 di Starbene in edicola dal 10 settembre 2019