Quasi 7 italiani su dieci assumono almeno 5 farmaci al giorno, mentre un anziano su 3 ne prende più di dieci. Certo, si fa presto a fare i conti: pressione alta? Sono già 2-3 pillole al dì. Digestione difficile e reflusso? Altro farmaco. Insonnia e ansia? Via alle goccine o alla pastiglietta. Un po’ di febbre, qualche dolorino? Perché soffrire inutilmente. Insomma, il “pieno” di compresse, in un modo o nell’altro, è più che raggiungibile. Che, funzioneranno bene ma, alla lunga, se sono troppe, presentano il conto, a volte molto salato, in termini di effetti collaterali. E sono proprio i medici, cioè i primi prescrittori, a dire basta. In una parola, a chiedere di “deprescrivere”.
A spiegare questo nuovo trend è il professor Giorgio Sesti, presidente della Società italiana di Medicina interna.
Professor Sesti, si parla oggi di “deprescrizione”: di che cosa si tratta?
Di ridurre il numero di farmaci che assumono spesso alcune categorie di persone, come gli anziani e i pazienti fragili. Soprattutto se sono inutili (o lo sono diventati), hanno alternative ed espongono a effetti collaterali. Fare meno, dunque, spesso vuol dire fare meglio, e l’obiettivo si ottiene utilizzando solo i farmaci essenziali.
Quando si stanno prendendo troppe medicine?
Quando superiamo la soglia di quella che noi chiamiamo “polifarmacoterapia”, cioè l’utilizzo di più di 5 pillole al giorno. Questo come principio generale, poi va valutato caso per caso.
Come siete arrivati al “Meno è meglio”, al “Less is more”?
Con la ricerca e diversi studi. Anche la Società italiana di Medicina Interna ne ha realizzato uno che si chiama Reposi (REgistroPOliterapie), condotto su cinquemila pazienti over 65 ricoverati nei reparti ospedalieri di medicina interna e geriatria, un vero e proprio registro anche degli eventi avversi e delle complicanze.
Quali sono i rischi più frequenti della polifarmacoterapia?
Innanzitutto l’insufficienza renale la quale, se non presa in tempo, può cronicizzarsi e dare gravi problemi di funzionalità dei reni (17% dei casi nello studio Reposi). Per esempio possono provocarla i comuni antinfiammatori non steroidei (FANS) che, se presi in eccesso, abitualmente e in concomitanza ad altri farmaci di uso comune per curare l’ipertensione o il diabete, diventano un mix a rischio. E poi diverse molecole interagiscono fra loro, incrementando l’una l’efficacia dell’altra, o inibendola: i FANS fanno aumentare il potere anticoagulante e antiaritmico di certi principi attivi. Per esempio, il paziente che usa un antinfiammatorio per la tosse o perché ha un po’ di febbre (che potrebbe essere benissimo tollerata), se prende un anticoagulante rischia emorragie, oppure aumenta il potere della pillola antiaritmica o riduce quello degli antipertensivi innalzando pericolosamente la pressione.
Ci sono altri medicinali a rischio o deprescrivibili?
Le benzodiazepine per combattere l’ansia, ma anche gli antidolorifici. Sono molecole che in certe circostanze possono produrre, soprattutto nei pazienti più anziani, persino il delirio, una condizione dove la persona perde consapevolezza di ciò che la circonda ed entra in uno stato confusionale che può durare da poche ore a interi giorni. Ciò succede anche negli ospedali, dove il malato è fuori dal suo habitat naturale e ha l’ansia per lo stato di salute e la degenza: in questi casi somministrare meno farmaci è meglio che darne di più, anche se si è in un ambiente protetto. Questo messaggio è diventato ormai ufficiale a livello mondiale.
È sbagliato anche prendere i farmaci tutti in una volta?
Sì, perché per certe medicine l’orario è importante. Per esempio gli ormoni tiroidei vanno assunti al mattino, a digiuno, facendo trascorrere mezz’ora prima di mangiare. L’antiaggregante per la trombosi va preso a stomaco pieno, le statine e l’insulina basale alla sera, il diuretico per l’ipertensione alla mattina. In più, dobbiamo sempre tenere presente la durata degli effetti della molecola, per distribuire al meglio più terapie nell’arco della giornata.
Di che cosa tenete conto per togliere o meno delle medicine al paziente?
Per esempio del fatto che se un anziano ha la pressione o la glicemia un po’ alte, si possono tollerare (monitorandole) senza per forza farle rientrare con le pillole nei parametri perfetti, a differenza di un paziente più giovane, dove invece il diabete e l’ipertensione devono essere messi subito sotto controllo per evitare, con il tempo, lo sviluppo di complicanze. A volte il compito è semplice: se un principio attivo va assunto a stomaco pieno è inutile prendere il gastroprotettore se si assume la pillola dopo i pasti, così come si può evitare l’antipiretico o l’antinfiammatorio se la febbre non supera i 38 °C. A volte è davvero solo questione di buon senso e di riprendere un po’ in mano il quadro terapeutico generale della persona in cura.
Bisogna considerare anche gli integratori nella somma delle pillole quotidiane?
Alcuni integratori sono dei veri e propri farmaci da banco. Per esempio la vitamina D è un ormone: bisogna usarli prudentemente e con la prescrizione medica, anche se non serve per acquistarli. Attenzione anche ai nutraceutici che contengono riso rosso fermentato per abbassare il colesterolo: certi sono vere e proprie statine a bassa intensità. Nessun problema in genere con i comuni multivitaminici.
Ma il messaggio “Less is more” è rivolto solo ai medici internisti e ospedalieri?
No, a tutti i medici e, soprattutto, ai vari specialisti che guardano troppo spesso solo la loro area di competenza, e non tengono sempre nella dovuta considerazione quali altre cure sta facendo l’assistito, con il pericolo di accumulare farmaci diversi. E poi alle famiglie e ai malati stessi, che tendono a utilizzare a ogni minimo disagio, e per conto proprio, le medicine che hanno nell’armadietto di casa o che comprano senza ricetta in farmacia.
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