La macchina del tempo non è fantascienza: esiste davvero. La portiamo sempre con noi, anche se non ci facciamo neppure caso. Ha ingranaggi delicatissimi ed è così piccola e compatta da stare rinchiusa nel nucleo delle nostre cellule: è la doppia elica del Dna, custode del codice della vita.
Opportunamente interrogata può mostrarci il nostro futuro, rivelando se rischiamo di avere un tumore o un infarto; può parlare del nostro presente, indicando per esempio quale dieta dovremmo seguire; può portarci anche nel passato, ricostruendo la storia della nostra famiglia fino alla notte dei tempi. Se usata dalle mani esperte di medici e genetisti, può perfino salvarci la vita. Se azionata da mani inesperte o malintenzionate, può darci informazioni inutili o, peggio ancora, visioni distorte e sbagliate che rischiano di angosciarci con paure infondate.
Il problema è reale e proprio in questi giorni ha scatenato un acceso dibattito negli Stati Uniti, dopo che la rivista American Journal of Human Genetics ha pubblicato i primi risultati di un grande e controverso progetto di ricerca, chiamato “BabySeq”, che sta analizzando a tappeto il Dna di centinaia di neonati per valutare le implicazioni sanitarie, economiche ed etiche dei test genetici su larga scala.
Lo screening condotto sui primi 160 bambini dimostra che l’analisi genetica aiuta a trovare informazioni preziose per diagnosticare malattie altrimenti insospettabili, ma allo stesso tempo rivela una serie di anomalie del Dna che sono difficili da valutare e gestire perché predispongono al rischio di sviluppare in futuro malattie di cui non si può avere nessuna certezza.
E allora quando ha davvero senso fare un test genetico? E cosa ci possiamo aspettare? Lo chiediamo al genetista Giuseppe Novelli, Rettore dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.
1. I test del Dna sono utili solo alle persone malate o anche a quelle sane?
«A entrambe le categorie. In caso di malattia, il test genetico aiuta a formulare una diagnosi precisa e accurata: pensiamo a quanto è prezioso per scoprire una patologia rara, verificare un sospetto diagnostico sul feto in gravidanza o sul neonato, oppure caratterizzare e valutare un tumore e trovare le terapie più efficaci per combatterlo. Oggi però, grazie ai progressi della ricerca, abbiamo a disposizione test genetici predittivi sempre più accurati, che possono essere usati anche dalle persone sane per valutare il rischio di sviluppare malattie per cui hanno una certa familiarità».
2. Cosa possiamo scoprire del nostro futuro grazie al dna?
«Possiamo per esempio valutare il rischio di sviluppare un tumore che magari ha già colpito alcuni nostri familiari: conosciamo tutti il caso dell’attrice Angelina Jolie, che si è sottoposta alla rimozione chirurgica di seno e ovaie perché portatrice di geni che le conferivano un rischio pari all’87% di sviluppare un cancro. Certo, una decisione drastica, per alcuni aspetti controversa, ma sintomatica degli effetti della diffusione di questo tipo di test.
La vera novità che si sta facendo largo in oncologia, però, è la biopsia liquida, un semplice esame del sangue con cui si ricercano frammenti di Dna tumorale rilasciati in circolo dalle cellule malate. Al momento viene usato solo sui pazienti per vedere come la malattia reagisce alle terapie senza dover ricorrere alla biopsia, ma se il suo potere predittivo verrà confermato dai test in corso, potrà imporre una svolta anche nello screening delle persone sane».
3. Malattie cardiovascolari: ci sono test genetici per scoprire se siamo a rischio?
«Esistono e permettono di fare qualcosa che finora non era mai stato possibile, cioè scoprire le persone ad alto rischio tra quelle che hanno una familiarità per ictus, infarto, ipertensione o ipercolesterolemia.
Sono molto utili, perché consentono di fare prevenzione in maniera tempestiva, anche assumendo farmaci se necessario: test clinici dimostrano che il rischio cardiovascolare può essere così ridotto notevolmente, anche del 44% un risultato davvero significativo. Ormai questi test stanno diventando così precisi da predire il rischio anche con molti anni di anticipo, tanto che i ricercatori di Harvard (Usa) hanno proposto di eseguirli a tappeto su tutti i neonati».
4. A proposito di bambini e gravidanza, ci sono moltissimi test che vengono proposti alle mamme in dolce attesa: quali quelli davvero utili?
«In questi ultimi anni si è sviluppato un mercato enorme che è andato fuori controllo. Esistono test di ogni genere e sempre più articolati, basti pensare che ce n’è perfino uno che si propone di cercare 6.000 mutazioni per studiare in un colpo 600 malattie genetiche.
A stabilire quale sia opportuno fare deve essere il genetista, perché bisogna saper interpretare i risultati del test: le mutazioni si trovano facilmente perché ognuno di noi è portatore di qualche decina di geni associati a malattie genetiche, ma poi bisogna valutare quanto pesino realmente. In questo periodo va molto di moda anche il test non invasivo NIPT, che con un prelievo di sangue materno permette di scoprire malattie cromosomiche del feto come la sindrome di Down.
Per quanto sia estremamente preciso, è indicato solo per lo screening di donne in gravidanza che non presentano particolari problematiche, mentre nei casi a rischio elevato sono ancora insostituibili l’amniocentesi e la villocentesi, che restano due baluardi per la diagnosi di malattie cromosomiche e genetiche».
5. Dopo il parto a quali test può essere sottoposto il neonato?
«Nella pratica clinica si eseguono test per scoprire patologie pediatriche come la fibrosi cistica, l’ipotiroidismo e malattie del metabolismo quali la galattosemia o la fenilchetonuria: una diagnosi precoce in questi casi è fondamentale, perché assumere subito la terapia giusta può significare salvare la vita o ritardare la comparsa della malattia.
Discorso a parte meritano i test genetici per prevedere il rischio di sviluppare malattie da adulto, come i tumori o l’infarto: ancora sperimentali, pongono molti problemi etici, perché si rischia di creare inutili paure facendo crescere queste persone come dei “malati sani” in attesa di qualcosa che non sappiamo se arriverà davvero».
6. Il web pullula di test per scoprire la dieta giusta, lo sport ideale, o l’anima gemella. Sono tutte bufale?
«Alcuni test possono avere una base scientifica, ma poi bisogna valutare se sono davvero utili. È vero che esistono varianti genetiche che possono guidare le nostre scelte amorose in base all’affinità del sistema immunitario, o predisporre ad avere il colesterolo alto come a essere più portati per la maratona piuttosto che per i 100 metri. Ma una volta ottenute queste informazioni, a cosa servono? Se ho intolleranze alimentari o il colesterolo alto lo posso già scoprire con un semplice esame del sangue. Se mi innamoro o divento un campione d’atletica non lo devo solo ai miei geni.
Poi c’è sempre l’incognita dei risultati: i laboratori che offrono questi test su Internet sono difficili da controllare, molti lavorano male senza rispettare standard di qualità. A volte, poi, affidarsi a test che vengono fatti dall’altra parte del mondo può comportare dei risultati falsi positivi, perché magari gli esiti vengono valutati usando parametri tarati su altre etnie diverse dalla nostra».
7. E i test per ricostruire la storia della propria famiglia? Promossi o bocciati?
«Bisogna fare una distinzione. Esistono test del Dna serissimi, usati di routine anche nei tribunali, che permettono di stabilire in modo certo i legami di parentela più stretti, come nel caso del test di paternità. Poi ci sono altri più fumosi che si spingono oltre, ad esempio per trovare le origini ancestrali della propria famiglia. È vero che possono individuare geni provenienti da particolari popolazioni e aree geografiche, ma spesso non indicano la tempistica con cui queste varianti sono comparse nel nostro Dna, quindi non sapremo se il nostro antenato proveniente per esempio dal nord Africa, risale alla preistoria o è più vicino a noi.
Questo genere di analisi, comunque, è più utile ai ricercatori che si occupano di genetica di popolazioni, che ai singoli che vogliono ricostruire l’albero genealogico. Resta poi aperta la questione della privacy: dove va a finire il Dna che spediamo per posta? Se proprio volete fare il test, controllate che vi venga richiesto un consenso informato e che vi sia data la possibilità di far distruggere il campione di Dna dopo le analisi, o almeno di conservarlo in maniera anonima».
Come fare i post test predittivi
Se in famiglia hai avuto casi di tumore o malattie cardiovascolari e vuoi scoprire se anche tu sei a rischio, rivolgiti al tuo medico: potrebbe indirizzarti al consultorio di genetica, dove un’équipe di specialisti farà un’analisi più approfondita della tua situazione familiare e individuale.
Questo tipo di struttura è presente in molti ospedali pubblici su tutto il territorio nazionale e per accedervi basta pagare il ticket. Se verrai considerato a rischio, ti sarà proposto il test genetico più adatto alle tue esigenze, sempre rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. L’esito arriverà dopo alcuni giorni e ti verrà spiegato dai consulenti del centro.
Se invece preferisci rivolgerti a una struttura privata, controlla che sia accreditata: meglio ancora se offre anche la consulenza genetica prima e dopo il test. Altrimenti, ricordati sempre di far valutare gli esiti delle analisi da un medico genetista.
Occhio all’effetto placebo
Conoscere cosa c’è scritto nel Dna può scatenare un effetto placebo in grado di modificare le reazioni dell’organismo: lo dimostra un esperimento condotto in California (Usa) dai ricercatori della Stanford University, che hanno arruolato 200 persone con la scusa di partecipare a uno studio di medicina personalizzata.
Dopo aver fatto il test del Dna, i volontari sono stati divisi in due gruppi: al primo è stato chiesto di fare una corsa sul tapis roulant, mentre al secondo hanno servito un piccolo pasto.
Dopo una settimana sono stati comunicati gli esiti del test del Dna, falsificati, e l’esperimento è stato ripetuto nuovamente: chi pensava di aver geni poco adatti allo sport ha ottenuto performance peggiori nella corsa, mentre chi era convinto di avere geni anti-obesità ha finito per mangiare meno, producendo una maggiore quantità dell’ormone della sazietà.
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Articolo pubblicato nel n° 9 di Starbene in edicola dal 12 febbraio 2019