di Angelo Piemontese
Nel 2016 in Italia sono stati stimati 15.300 nuovi casi di tumore della tiroide (11.000 donne e 4.300 uomini). I dati sono in costante aumento, questa patologia colpisce soprattutto persone in età lavorativa, fra i 40 e i 50 anni.
Come dicono i numeri, l’incidenza nella popolazione femminile è quasi il triplo, al punto che il tumore della tiroide è considerato il quarto tumore maligno più frequente nelle donne e il secondo in quelle con età inferiore a 50 anni.
COME SI ARRIVA ALLA DIAGNOSI
I noduli maligni vengono evidenziati grazie a un esame su cellule prelevate dal nodulo stesso con un comune ago sottile, il noto agoaspirato tiroideo. «Questa tecnica è affidabile ma non perfetta: in circa il 20% dei casi non è possibile fare una diagnosi certa (in pratica, sono presenti alterazioni minori delle cellule, diverse quelle palesemente benigne, ma nemmeno palesemente maligne)», spiega Enrico Papini, responsabile scientifico AME, Associazione Medici Endocrinologi e direttore Struttura Complessa Endocrinologia e malattie del metabolismo, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale.
«Fino a poco tempo fa, in questi casi, prevaleva l’atteggiamento aggressivo: il nodulo indeterminato veniva operato, con la conseguente perdita della funzionalità della tiroide. Gli endocrinologi oggi ritengono invece che sia inutile sacrificare questa ghiandola nelle donne interessate per una percentuale di malignità bassa», spiega l'esperto.
«Quando il rischio di malignità è stimato al di sotto del 15 per cento, si controllano tutti i dati clinici, la familiarità, le caratteristiche ecografiche, quello che risulta alla palpazione durante la visita e, se i dati sono orientati verso il basso rischio, le pazienti vengono seguite nel tempo, ed eventualmente, effettuano un secondo agoaspirato alcuni mesi dopo».
IL NUOVO ESAME MOLECOLARE
Per limitare il più possibile questi interventi, oggi gli esperti auspicano di poter disporre di una metodica oggettiva, non basata quindi sull’opinione di chi esamina le cellule asportate al microscopio, ma attraverso il riconoscimento di geni mutati nelle cellule maligne.
Si tratta dell’esame molecolare, un test basato sull’individuazione di alcune mutazioni genetiche all’interno del campione di cellule prelevate, dimostrazione incontrovertibile di presenza del cancro.
Negli Stati Uniti questo metodo è già utilizzato, ma ha un limite rappresentato dal costo, molto elevato. Al momento, gli scienziati lavorano per mettere a punto test meno costosi e affidabili. Dovrebbero essere disponibili nel giro di 4 anni e avere un costo complessivo inferiore ai mille euro.
INTERVENTI SEMPRE PIÙ PERSONALIZZATI
In Italia ogni anno vengono effettuati oltre 40.000 interventi, che nell’80% dei casi riguarda il genere femminile. Ma attualmente il 98% dei pazienti con cancro alla tiroide è sottoposto a rimozione totale della ghiandola e solo al 2% dei soggetti viene fatta l’asportazione della sola parte interessata dal tumore.
«Bisogna ridurre le tiroidectomie totali (ossia l’asportazione completa della ghiandola) a favore di quelle parziali», sottolinea Rocco Bellantone, direttore dell’Unità Operativa complessa di Chirurgia Endocrina e Metabolica del Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma.
Le nuove conoscenze scientifiche hanno portato all’affermarsi di una chirurgia personalizzata: così come è accaduto per i tumori alla mammella, anche per la tiroide c’è necessità di una chirurgia meno invasiva. Per tumori maligni di piccole dimensioni (sotto i due centimetri) e che non hanno dato metastasi ai linfonodi l’asportazione del solo lato dove c’è il tumore dà le stesse garanzie di una rimozione totale, ma ha il vantaggio di mantenere una mezza tiroide sana».
Inoltre, con questo tipo di operazione non c’è più bisogno di prendere ormoni a vita: «Vengono somministrati per qualche tempo dopo l’intervento, per evitare di sovraccaricare la parte di tiroide rimasta. Poi, pian piano, si diminuisce la dose, fino a eliminare l’assunzione di ormoni», spiega l’esperto.
Grazie al nuovo metodo è possibile anche evitare le complicanza della rimozione totale della tiroide: «Nel 2 per cento dei casi, infatti, può capitare di asportare le paratiroidi o i nervi delle corde vocali, a causa delle loro piccolissime dimensioni, pari rispettivamente a un chicco di riso e a un capello».
IL TRATTAMENTO POST OPERATORIO
Quando la ghiandola tiroidea viene asportata totalmente, è indispensabile una terapia per sostituire l’ormone non più rilasciato dalla tiroide.
«La grande maggioranza dei pazienti viene trattata con la tiroxina (T4), ormone sintetico ma identico a quello prodotto dalla tiroide in natura», spiega Salvatore Maria Corsello professore di Endocrinologia Università Cattolica di Roma.
Il T4 viene poi trasformato nei tessuti dell’organismo in ormone T3, che serve a evitare l’ipotiroidismo, patologia che causa stanchezza, sonnolenza, aumento di peso e della frequenza e quantità delle mestruazioni. La tiroxina, inoltre, riduce l’ormone tireostimolante (Tsh), diminuendo il rischio di ricrescita del tumore. Inoltre, in alti dosaggi, la tiroxina può provocare danni alle ossa (osteoporosi) e al cuore (aritmie).
«Per tutti questi motivi ora la tendenza è quella di un approccio più personalizzato e la terapia ad alte dosi di ormone tiroideo viene limitata ai casi di tumore a più alto rischio», commenta l’esperto.
Le nuove terapie “su misura”, invece, seguono la regola del ”fare meno è fare meglio”: con il periodico controllo nel sangue del Tsh, l’endocrinologo valuta l’adeguatezza della terapia e la classe di rischio può venire progressivamente abbassata.
Oggi sono disponibili in commercio anche formulazioni di tiroxina in flaconcini liquidi o in capsule molli, con grandi vantaggi rispetto alle tradizionali formulazioni in compresse: si assorbono più velocemente e si può evitare di aspettare mezz’ora per fare colazione, come accadeva per le formulazioni precedenti. Queste, inoltre, interferiscono meno con altri farmaci, come i gastroprotettori.
novembre 2016
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