Nel corpo c’è un direttore d’orchestra che regola la "sinfonia" del calcio. Si tratta del paratormone (indicato solitamente con la sigla PTH nelle comuni analisi del sangue), l’ormone prodotto dalle ghiandole paratiroidi, situate nel collo, vicino alla tiroide. Se questo smette di funzionare correttamente, si altera quell'"armonia" che regola la normale quantità di calcio che circola nel sangue, cosa che può portare a diverse conseguenze su ossa e organi vitali.
«Si parla di iperparatiroidismo se queste piccole ghiandole lavorano troppo rispetto alla loro normale fisiologia e producono PTH in eccesso», spiega il dottor Massimo Procopio, dirigente medico presso la Divisione universitaria di Endocrinologia, diabetologia e malattie del metabolismo dell’Azienda ospedaliero-universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino.
«L’ormone paratiroideo serve soprattutto a regolare la quantità di calcio che circola nel sangue, evitando che eventuali eccessi o deficit possano compromettere importanti funzioni nell’organismo, come il metabolismo osseo e la contrazione dei muscoli, cuore compreso».
Cos’è l’iperparatiroidismo primario
La più comune forma di iperparatiroidismo è detta “primaria” e si verifica quando l’origine del problema è localizzata proprio in una o più ghiandole paratiroidi, che diventano iperattive.
«A quel punto, l’eccesso di paratormone aumenta i livelli di calcio, perché il PTH ha la capacità sia di riassorbire il calcio presente nelle ossa e spostarlo nel sangue, sia di far trattenere ai reni più calcio nel circolo sanguigno, anziché consentirne l’espulsione con l’urina», descrive il dottor Procopio. «Non a caso, l’iperparatiroidismo primario si riconosce perché le analisi di laboratorio evidenziano un aumento sierico del PTH e della calcemia».
Questa forma colpisce soprattutto le donne dopo la menopausa ed è frequente in età avanzata. Le principali cause sono un adenoma paratiroideo (un tumore benigno che si sviluppa in una o più ghiandole paratiroidi), una iperplasia (ingrossamento) delle ghiandole paratiroidi e, raramente, un carcinoma paratiroideo. Nel 5-10% dei casi, l’iperparatiroidismo primario è dovuto ad alcune mutazioni genetiche che causano sindromi a trasmissione eredo-familiare (neoplasie endocrine multiple, ipercalcemia ipocalciurica familiare e iperparatiroidismo primario associato a tumore della mandibola).
Cos’è l’iperparatiroidismo secondario
L’iperparatiroidismo secondario, invece, si verifica come risposta compensatoria a condizioni che causano una riduzione dei livelli di calcio nel sangue o un aumento della sua richiesta.
«In sostanza, è un meccanismo di compenso a fattori esterni che influenzano il metabolismo del calcio, come il deficit di vitamina D: senza livelli adeguati di questa vitamina, l’intestino non riesce ad assorbire efficacemente il calcio dalla dieta», racconta l’esperto. «Il conseguente abbassamento del calcio nel sangue “sveglia” le paratiroidi, che iniziano subito a produrre un eccesso di PTH per tentare di normalizzare i livelli di calcio attraverso le sue azioni di riassorbimento da ossa e reni».
A differenza della forma primaria, questa si riconosce perché gli esami del sangue evidenziano un aumento sierico del PTH, mentre la calcemia è generalmente normale o può essere leggermente bassa. «È ovvio che, correggendo la causa di base, per esempio supplementando la vitamina D, si risolve automaticamente anche l’iperparatiroidismo», tiene a evidenziare il dottor Procopio.
Cos’è l’iperparatiroidismo terziario
Ci sono situazioni in cui questa correzione automatica non è possibile: è il caso dell’insufficienza renale cronica, dove c’è un difetto di produzione della vitamina D attiva (calcitriolo) che determina un iperparatiroidismo secondario di lunga durata.
«Nel corso del tempo, questo può stimolare la formazione di adenomi paratiroidei, che predispongono al cosiddetto iperparatiroidismo terziario, dove le ghiandole paratiroidi diventano autonome e continuano a produrre PTH anche quando i livelli di calcio sono normali o elevati», tratteggia l’endocrinologo.
A quel punto, nelle analisi del sangue del paziente con insufficienza renale sale anche la calcemia e si delinea la stessa situazione dell’iperparatiroidismo primario: PTH e calcio in eccesso.
Quali sono le conseguenze dell'iperparatiroidismo
L’aumento del riassorbimento del calcio dalle ossa indebolisce lo scheletro, aprendo la strada a osteoporosi, dolore diffuso o localizzato, fratture anche in assenza di traumi significativi.
«Inoltre, sebbene la funzione del paratormone sia quella di aumentare il riassorbimento del calcio anche a livello renale, quando la calcemia è molto spiccata nel sangue, questa azione viene vanificata e aumenta l’escrezione di calcio con le urine, per cui aumenta il rischio di calcolosi e insufficienza renale», avverte il dottor Procopio.
Quali sono i sintomi dell'iperparatiroidismo
Nella maggior parte dei casi, l’iperparatiroidismo è asintomatico, soprattutto nelle fasi iniziali. Molti pazienti non presentano sintomi evidenti e la condizione viene spesso scoperta per caso durante degli esami del sangue di routine.
Tuttavia, con l’aggravarsi della situazione, possono comparire affaticamento, debolezza muscolare, dolori ossei o fratture, nausea e vomito, aumento della sete e della produzione di urina, problemi gastrointestinali. Rarissimi, invece, sono i disturbi compressivi locali, come difficoltà nella deglutizione, dolore, sensazione di corpo estraneo o alterazioni della voce. Di solito, la presenza di questa sintomatologia è legata a un carcinoma paratiroideo, un’evenienza estremamente rara (rappresenta lo 0,005 % di tutti i tumori).
Come si fa la diagnosi di iperparatiroidismo
Per arrivare alla diagnosi di iperparatiroidismo, è sufficiente valutare nel sangue il valore di PTH e calcemia, meglio se con due rilievi diversi, a distanza di un paio di settimane l’uno dall’altro.
Iperparatiroidismo: quale terapia
La forma di iperparatiroidismo più “facile” da risolvere è quella secondaria: correggendo la causa di base (per esempio con un’adeguata integrazione di vitamina D), il PTH rientra nei suoi range. In quella primaria, invece, la terapia risolutiva è l’intervento chirurgico. La paratiroidectomia consiste nella rimozione di una o più ghiandole paratiroidee: prima di arrivare alla sala operatoria, il paziente viene sottoposto sia a un’ecografia di tiroide e paratiroidi, sia a una scintigrafia paratiroidea con radiofarmaco per identificare quelle malate.
«In genere, ciascuno di noi possiede quattro ghiandole paratiroidi che sono posizionate dietro i lobi tiroidei, due per ciascun lato, o talvolta in sedi atipiche, per esempio nel mediastino, una regione anatomica che si trova tra i due polmoni, oppure vicino al timo, una ghiandola collocata nel torace, davanti alla trachea», specifica il dottor Procopio. «Esistono anche paratiroidi soprannumerarie, per cui alcune persone presentano degli “extra” rispetto alle quattro normali: di solito una, raramente due, eccezionalmente di più».
Iperparatiroidismo, a chi rivolgersi
Come qualsiasi intervento chirurgico, anche la paratiroidectomia comporta dei rischi e delle potenziali complicazioni. Le ghiandole paratiroidi si trovano vicino ai nervi che controllano le corde vocali (nervi laringei ricorrenti): se lesionati durante l’intervento, possono portare a problemi vocali temporanei o permanenti.
Inoltre, se non tutte le ghiandole paratiroidi malate vengono rimosse (ad esempio nel caso di paratiroidi soprannumerarie), c’è il rischio di recidiva della condizione. In più si può formare un ematoma locale oppure si può sviluppare un conseguente ipoparatiroidismo, dove le ghiandole rimaste lavorano poco.
Per questo motivo è bene rivolgersi a chirurghi esperti, all’interno di centri con un alto volume operatorio, dove tutte queste complicanze sono molto rare. «Nelle ore successive all’intervento, il paziente deve essere sottoposto a un attento monitoraggio della calcemia, perché in genere si assiste a un abbassamento del valore, su cui è necessario intervenire con una supplementazione orale oppure con un’infusione endovenosa nei casi più severi», conclude l’esperto.
«Dopo le dimissioni, per lo meno nel primo mese, si prosegue a scopo cautelativo con questa integrazione e con quella di calcitriolo. Generalmente, l’ipoparatiroidismo post-chirurgico è transitorio. Solo negli interventi estesi, in cui sono coinvolte più paratiroidi, ci può essere un danno permanente, ma rivolgendosi a centri esperti anche questa eventualità può essere scongiurata».
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