Diarrea, dolore addominale, spossatezza e perdita di peso sono i principali sintomi della sindrome dell’intestino corto (SBS, Short Bowel Syndrome), una rara condizione dove l’intestino tenue presenta una lunghezza inferiore ai 180-200 centimetri, misurata a partire dall’angolo di Treitz (il punto di passaggio tra duodeno e digiuno), rispetto ai normali 3-5 metri.
«In realtà, più che la lunghezza in quanto tale, conta il grado di sufficienza intestinale, ovvero la capacità dell’intestino di mantenere il normale stato di nutrizione dell’individuo, assorbendo adeguatamente macronutrienti, acqua ed elettroliti», spiega il dottor Andrea Calafiore, specialista in Malattie dell’apparato digerente alla Clinica Villalba di Bologna.
Cosa comporta la sindrome dell'intestino corto
In condizioni di normalità, il cibo proveniente dallo stomaco viene spinto a poco a poco nel primo tratto dell’intestino tenue (duodeno), dove si mescola con degli enzimi digestivi. Successivamente, la contrazione muscolare (peristalsi) lo sposta nelle parti inferiori (digiuno e ileo), mentre i nutrienti passano nel flusso sanguigno grazie a migliaia di piccole estroflessioni a forma di dito, chiamate villi intestinali, collegate a una fitta rete di capillari.
«Quando l’intestino è più corto del normale, si riduce la superficie di assorbimento e spesso si associano delle alterazioni della motilità: così, muovendosi in fretta, il cibo transita velocemente e non ha il tempo di essere scomposto nelle varie parti utili per il nostro benessere», descrive il dottor Calafiore. «Da questo, derivano perdita di massa magra, dimagrimento e, in generale, una cattiva qualità di vita».
Come si diagnostica la sindrome dell'intestino corto
La diagnosi di SBS si basa su un’attenta anamnesi del paziente e su valutazioni strumentali e di laboratorio. Per esempio, la comparsa di diarrea cronica, malassorbimento e disidratazione dopo un intervento chirurgico dove è stato rimosso un lungo tratto di intestino fa sorgere il sospetto di questa sindrome.
«Ma la diagnosi deve poi essere confermata sia da esami del sangue e delle feci per valutare cosa l’intestino riesce ad assorbire o meno sia da indagini radiologiche che misurano la lunghezza dell’intestino residuo: si va dalle più moderne Entero-TC ed Entero-RMN, rispettivamente una TAC e una risonanza magnetica dell’addome utili allo studio dell’intestino tenue, alla più tradizionale radiografia del tubo digerente».
Sindrome dell’intestino corto, quali sono le cause
Le principali cause che conducono alla sindrome dell’intestino corto possono essere congenite oppure acquisite. Nel primo caso, molto più raro, la teoria comune è che la SBS sia legata all’enterocolite necrotizzante, un’infiammazione dell’intestino che favorisce la penetrazione dei batteri all’interno della parte intestinale, causando danno, morte cellulare e necrosi del colon e dell’intestino: in genere, si manifesta nella seconda o terza settimana di vita e tra i fattori di rischio ci sono il parto prematuro, un basso peso alla nascita e la nutrizione enterale con latte artificiale.
«Fra le cause acquisite, invece, c’è la malattia di Crohn, che talvolta necessita di molteplici interventi chirurgici con conseguenti resezioni dell’intestino, che nell’arco di alcune decadi può diventare corto. Per fortuna, da qualche tempo, in questo ambito si è diffuso il concetto che non sia indispensabile eliminare sempre il tratto malato, ma più semplicemente rimuovere l’eventuale restringimento con una plastica, la cosidetta stricturoplastica», racconta il dottor Calafiore.
«Un’altra causa di SBS è l’infarto intestinale, che si verifica quando i vasi sanguigni che confluiscono nell’intestino si contraggono o si ostruiscono, riducendo o interrompendo il necessario afflusso di sangue all’organo. Più grande è il vaso che si chiude, maggiore è la porzione di intestino che “muore” e va poi rimossa dal chirurgo».
Sindrome dell’intestino corto, la terapia
Posto che l’obiettivo principale è fare in modo che l’aspettativa di vita dei pazienti con SBS sia sovrapponibile a quella della popolazione generale, la principale terapia per questo tipo di patologia è la nutrizione parenterale integrativa, che consiste nell’infusione di adeguate miscele nutritive tramite appositi cateteri venosi.
«In genere l’infusione avviene durante le ore notturne, ma esistono sistemi portatili che consentono al paziente di muoversi liberamente anche fuori casa», evidenzia l’esperto. «A questa terapia si associa sempre un approccio alimentare personalizzato: in sostanza, vengono sfruttate al meglio le performance intestinali individuali per ridurre le necessità dell’integrazione endovenosa, che da sola non basta. Per esempio ci sono pazienti che devono integrare solo liquidi, altri anche microelementi o carboidrati, proteine e grassi».
Ricordiamo inoltre che, dopo un intervento, l’intestino residuo va spesso incontro a un adattamento spontaneo post-chirurgico, cioè è in grado di adattarsi alla nuova condizione strutturale nell’arco di un periodo variabile da uno a tre anni, recuperando parte delle funzioni perse.
«Ecco perché bisogna personalizzare e monitorare nel tempo la riabilitazione intestinale, che consiste appunto in programmi dietetici, eventuali supplementazioni, ma anche farmaci antidiarroici e antibiotici in caso di contaminazione batterica del tenue», conclude il dottor Calafiore.
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