I numeri sono impressionanti: «Ogni anno, nei Paesi occidentali, la malattia venosa cronica colpisce il 5% delle persone. Inoltre lo studio Gutenberg, condotto in Germania su oltre diecimila volontari, ha rilevato come circa un terzo dei partecipanti presentava un’insufficienza venosa cronica (definizione che indica gli stadi più avanzati della malattia). È un’epidemia», mette in guardia Alberto Froio, professore associato di Chirurgia Vascolare all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Fondazione IRCSS - San Gerardo dei Tintori a Monza.
«I sintomi più importanti sono senso di pesantezza e dolore alle gambe, ma possono presentarsi anche altri fastidi come, per esempio, prurito, sensazione di calore e formicolio». A lui abbiamo chiesto di fare una “radiografia” del problema.
Insufficienza venosa, le conseguenze
«La malattia venosa cronica colpisce le vene degli arti inferiori, che hanno il compito di portare il sangue verso il cuore: un movimento garantito da postura del piede, funzione cardiaca e pressione esercitata dai muscoli delle gambe. Ma l’elemento fondamentale è rappresentato dalle valvole venose», spiega il professor Froio.
«Simili alle porte di un saloon, si “aprono” in una sola direzione, assicurando il flusso del sangue dal basso verso l’alto e aiutando, quindi, a spostarlo contro gravità. Quando non funzionano, oppure sono danneggiate, il sangue procede in senso contrario rispetto a come dovrebbe, causando diverse conseguenze. La prima è la dilatazione di una vena superficiale, che diventa varicosa; l’ipertensione cui questa è sottoposta, a un certo punto, genera sulle pareti una spinta del sangue tale da provocare un accumulo di liquidi a livello delle caviglie, che diventano gonfie».
Non solo: «I liquidi possono fuoriuscire nella zona compresa fra vena e pelle, causando un’infiammazione che determina dolore al tatto, rende rigida la cute che interessa le caviglie (proprio come se fosse di cartone) e le dà un colore scuro simile a quello della ruggine, fenomeno dovuto allo stravaso di sangue nei tessuti. Fino alla comparsa di ulcere, che rappresenta lo step più grave», aggiunge il chirurgo vascolare.
Un problema soprattutto femminile
A correre maggiori rischi di sviluppare la malattia venosa cronica sono le donne: «La maternità può favorirla. Durante i mesi che precedono il parto, il feto schiaccia le vene iliache, ostacolando il deflusso e danneggiando le valvole venose. Se l’ipertensione è lieve, al termine della gravidanza la situazione torna nella norma; ma nelle donne predisposte porta a una maggiore frequenza della malattia», avverte il professor Froio.
Per lo stesso motivo sale sul banco degli imputati l’obesità. Pure la familiarità gioca un ruolo importante: «Anche se non si tratta di una malattia genetica, studi recenti stanno cercando di capire quali fattori vengono trasmessi dai genitori ai figli. A essere coinvolti sono decine di geni e ognuno dà il suo contributo», continua l’esperto. Tra i fattori di rischio c’è anche l’età, poiché con il passare degli anni il sistema venoso tende a sfiancarsi, facendo comparire il reflusso.
Inoltre, un altro “nemico” è il fatto di rimanere in piedi per diverso tempo: «Secondo uno studio condotto in Grecia le persone che passano più di 4 ore al giorno in questa posizione hanno maggiori probabilità di sviluppare la malattia venosa cronica. Allo stesso modo, però, anche chi resta seduto a lungo non ha un deflusso venoso regolare», puntualizza il chirurgo vascolare.
Ma a contare è anche la temperatura dei luoghi in cui soggiorniamo: «Occorre immaginare le pareti della vena come un muscolo. Il caldo aumenta il loro diametro, impedendo alle valvole di toccarsi correttamente e favorendo il reflusso», precisa il professor Froio.
Insufficienza venosa, come si interviene
Per prevenire e contrastare l’avanzare della malattia venosa cronica occorre migliorare lo stile di vita e adottare una serie di piccole avvertenze. «Nei casi più severi (quelli caratterizzati da vene varicose, edema, cambiamenti di colore e rigidità della cute, ulcere) e in presenza di sintomi, è indicato un trattamento per eliminare il reflusso», spiega l’esperto.
«L’intervento più eseguito oggi prevede l’associazione dell’ablazione termica alla flebectomia dei rami che afferiscono alla vena grande safena. Lo specialista, dalla regione del ginocchio del paziente, introduce una sonda che fa avanzare fino all’altezza dell’inguine, controllandola con l’ecografo. A questo punto, tramite la radiofrequenza, porta la temperatura a 120 °C e il calore generato chiude la vena grande safena. Quindi, il chirurgo esegue sulla vena varicosa una serie di microincisioni di circa 2-3 mm e, con un uncino, la sfila. L’intervento, eseguito in anestesia locale, è ambulatoriale (cioè il pazienta non ha bisogno di passare la notte in ospedale) e dura 30-40 minuti. Occorre indossare una calza elastica per un mese e dopo 8-10 giorni si può tornare al lavoro. Per la pratica dell’attività sportiva, invece, bisogna aspettare due settimane».
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