Di fronte alla sindrome fibromialgica anche dare una semplice definizione diventa complicato. «Può essere classificata come una malattia prettamente reumatica, ma anche infiammatoria», spiega il dottor Francesco Garritano, biologo nutrizionista e autore di La fibromialgia è una sfida: tu puoi vincerla ((Edizioni LSWR, 19,90 €).
«Ma potrebbe essere annoverata fra le patologie autoimmuni, senza dimenticare il ruolo dell’intestino, quello dei disturbi del sonno o della disregolazione del sistema nervoso autonomo». A lui abbiamo chiesto di fare chiarezza su questa malattia ancora così poco conosciuta e di suggerire il modo migliore per affrontarla.
Quali sono i numeri del problema?
Si stima che a soffrire di fibromialgia siano fra 2 e 3 milioni di italiani, ma c’è molta confusione poiché oggi non esistono esami per diagnosticare la malattia. Perciò c’è il rischio di sottostimare il problema o esporsi a una sovradiagnosi.
Età: è vero che si sta abbassando?
Sì, lo confermano gli ultimi studi e oggi sta prendendo piede anche una forma di fibromialgia che insorge nei bambini fra gli 11 anni e mezzo e i 14 circa. È una situazione difficile, poiché formulare una diagnosi nei più piccoli diventa complesso. Però, il problema si sta affacciando anche in questa fascia d’età ed è estremamente preoccupante.
E le donne? Corrono gli stessi rischi rispetto agli uomini?
Hanno probabilità più alte, con un rapporto medio di 3 a 1. Le donne sono predisposte dal punto di vista fisiologico a un’alterazione dei meccanismi del dolore per i processi biologici cui vanno incontro nelle varie fasi della loro vita (menopausa, ciclo mestruale). Ma sono anche più inclini a subire lo stress cronico psicofisico legato alla vita moderna, che le vede impegnate su più fronti (lavoro e famiglia, per esempio). Va poi ricordato che le malattie infiammatorie e autoimmuni raddoppiano o triplicano nel sesso femminile, per l’effetto degli ormoni sessuali sulle cellule che regolano le difese immunitarie.
Molti la considerano ancora una patologia immaginaria...
È assolutamente reale, anche se ancora oggi viene liquidata con frasi come “è una malattia della mente”, e suggerimenti tipo “sei un po’ stressata” o “fatti una vacanza”. Certo, può coinvolgere la mente perché il paziente è molto sofferente e presenta diversi sintomi abbastanza invalidanti che influiscono sul benessere mentale. Ma è concreta.
Qual è il segnale più comune?
Il dolore muscolo scheletrico, che non può essere nascosto. Ma la fibromialgia è conosciuta come la malattia dei cento sintomi: fra i più comuni ci sono problematiche del sonno, una stanchezza ingiustificata che impedisce di alzarsi dal letto e dura nel tempo e la cosiddetta fibro-fog, nebbia mentale caratterizzata da una perdita di memoria a breve termine che impedisce di ricordare perché, per esempio, siamo entrati in una stanza. Senza dimenticare problemi intestinali e acufeni.
Il tempo ha un ruolo chiave?
Sì. La fibromialgia va diagnosticata il prima possibile poiché è caratterizzata da una base infiammatoria molto alta. Più passa il tempo, più le sue fiamme aumentano e il paziente presenta con maggiore evidenza le caratteristiche tipiche di questo processo, come dolore e febbriciattola.
Le cause sono state appurate?
Oggi sappiamo molto sulla fibromialgia, ma manca qualche tassello e sulle cause non è ancora stata fatta chiarezza. Sappiamo che l’intestino riveste un aspetto importante, proprio come le infiammazioni; c’è un discorso legato ai disturbi del sonno, una predisposizione genetica, che conta per il 40 per cento e sulla quale influiscono ambiente e stile di vita, in grado di “accendere” i segnali. Ma anche l’aspetto psichico è rilevante. Molti pazienti, quando chiedo loro qual è stato il momento in cui si è scatenata la fibromialgia, rispondono “dopo un lutto” o “un forte trauma”. Definisco la sindrome fibromialgica come “la tempesta perfetta”, data dall’unione fra ciò che è scritto nei geni e l’epigenetica, cioè l’influenza del mondo esterno (stress, traumi emotivi, inquinamento, cattiva alimentazione) sull’organismo.
Si può curare?
La soluzione definitiva non c’è e per il momento siamo ancora lontani da una cura. Però, abbiamo tanti modi per affrontarla. Vincere, oggi, non significa far guarire chi ne soffre ma aiutare a vivere meglio. E, aggiungo, aumentare l’attenzione nei confronti di questa malattia, che spesso vede il paziente solo, a volte inascoltato e privo di sostegno.
E allora come occorre agire?
Con un trattamento multidisciplinare, che oggi però è usato ancora da pochi. È necessario affidarsi a un team che sia “sintonizzato” sulla stessa lunghezza d’onda, composto da diversi esperti fra cui nutrizionista, medico, psicologo, osteopata, fisioterapista e specialisti nel campo dell’attività fisica, in grado di elaborare un trattamento mirato per il paziente, “cucito” su misura, proprio come un abito.
Quindi la sola soluzione farmacologica non basta?
No, assolutamente. Anche perché il farmaco contro la fibromialgia non c'è.
È possibile combattere la fibromialgia a tavola?
Sì. Prima si osserva una fase di “start”, per ripulirsi da quei cibi dall’azione infiammatoria come zuccheri, dolcificanti ed edulcoranti. Ai miei pazienti suggerisco sempre di guardare l’etichetta degli alimenti e, se tra i vari ingredienti ce ne sono più di quattro che le nostre bisnonne non riuscirebbero a riconoscere, meglio lasciare perdere.
Una volta fatta questa pulizia?
Si agisce in base alla dominanza, cioè il sintomo che affligge maggiormente il paziente. L’approccio deve essere personalizzato ma, in generale, se prevale il dolore tolgo glutine e glutammato (neurotrasmettitore che si trova in alcuni alimenti come legumi e dadi da brodo). Inoltre, intervengo riducendo il carico di alimenti che contengono istamina, o la liberano all’interno dell’organismo, e le solanacee (patate, pomodori, melanzane, peperoni); queste presentano solanina, sostanza in grado di aumentare l’infiammazione e, quindi, il sintomo del dolore. Se invece il paziente presenta problematiche di gonfiore intestinale, per un mese circa mi oriento togliendo i cibi che fermentano maggiormente (i cosiddetti FODMAP), per poi tornare a un’alimentazione “normale”. Ovviamente, tutto all’interno di un programma alimentare personalizzato.
Nel trattamento conta anche l’attività fisica?
All’interno di un approccio multidisciplinare riveste un fattore molto importante, non deve prevedere l’utilizzo di pesi ma essere leggera. Anche una semplice passeggiata nel verde dei boschi è una buona scelta, perché gli alberi rilasciano terpeni, sostanze anticrisi. L’importante è approcciarsi al movimento con gradualità e, quando ci si sente stanchi, fermarsi. Un’altra attività consigliabile è il nordic walking, che permette di sfruttare l’appoggio delle bacchette e dona tanti vantaggi, poiché libera tossine a livello del cervello e aumenta la serotonina (l’ormone della felicità), aiutando a sentirsi meglio. Oppure, ok a due ore di Pilates e una di yoga alla settimana. L’attività fisica deve comunque essere valutata e prescritta in base alle esigenze della persona. Bisogna concordare il numero di sedute settimanali e stilare un calendario di appuntamenti. Se il paziente è sofferente, il fatto che riesca a fare “due passi” è già una grande soddisfazione. Mezz’ora al giorno di camminata senza sovraccarichi sarebbe l’ideale ma, in caso contrario, vanno bene quattro passeggiate a settimana.
Fisioterapia e osteopatia: come tornano utili?
Permettono di lavorare sulle tensioni a carico di determinate fasce muscolari e trattare il nervo vago, aiutando così a regolare lo stress notturno che ostacola il riposo. Oppure, di intervenire sulle sofferenze intestinali dovute alla tensione nervosa, che irrigidiscono il corpo. Ma l’esperto deve conoscere l’argomento “fibromialgia”, altrimenti si rischia di peggiorare la situazione.
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