Esami del sangue, monociti alti: cosa significa, quando preoccuparsi

Questi globuli bianchi possono aumentare in molte situazioni, perché servono a difendere l’organismo dagli agenti estranei. Spetta al medico di base o all’ematologo stabilire le cause del rialzo



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Nella fanteria del sistema immunitario, i monociti sono i globuli bianchi più grandi, caratterizzati da un grande nucleo reniforme (a ferro di cavallo) e presenti nel sangue in una percentuale che oscilla tra l’1 e il 6%. Vengono prodotti all’interno del midollo osseo e poi immessi nel flusso sanguigno, dove sopravvivono per poche ore (circa 8-72), durante le quali difendono l’organismo da sostanze e microrganismi potenzialmente pericolosi.

«Hanno un meccanismo d’azione diverso rispetto ai “colleghi” neutrofili, linfociti, eosinofili e basofili», spiega la professoressa Giorgina Specchia, specialista in Ematologia a Bari. «Per esempio, come i neutrofili, riescono a inglobare e distruggere gli invasori, ma sanno catturare e digerire particelle più grandi o pesanti. Inoltre, i monociti hanno un’elevata capacità di migrare nei siti di infiammazione, differenziarsi nei tessuti in cellule più grandi dette macrofagi, specializzarsi in sottotipi di cellule dendritiche, secernere sostanze che attraggono altre cellule infiammatorie, fagocitare detriti cellulari e microrganismi».

A cosa servono i monociti 

I monociti fanno parte dell’immunità innata, quella che agisce in maniera aspecifica contro qualsiasi tipo di agente esterno, anche mai incontrato prima, operando tramite il meccanismo della fagocitosi. In pratica, ogni monocita afferra saldamente il nemico e lo attira a sé, ripiegando una parte della sua membrana esterna e avvolgendo la vittima in una sorta di mini-prigione: per usare un paragone, è come se il monocita allargasse un sacchetto della spazzatura e poi lo trascinasse verso l’interno, dove potenti sostanze chimiche (simili agli acidi gastrici) sono capaci di dissolvere la materia. Non basta.

Dopo aver fagocitato l’elemento estraneo, i monociti ne consegnano l’identikit ai linfociti, istruendoli e consentendo lo sviluppo di una reazione immunitaria “su misura” per i futuri attacchi. Quando invece si trasformano in macrofagi, dal greco “grandi mangiatori”, diventano le cellule immunitarie più grandi del corpo: se una cellula media avesse le dimensioni di un essere umano, un macrofago somiglierebbe a un rinoceronte nero, che può arrivare a pesare 3,6 tonnellate, quindi ha una certa imponenza.

A seconda del tessuto in cui vengono reclutati, i macrofagi assumono caratteristiche diverse e una denominazione specifica: cellule di Kupffer (nel fegato), cellule della microglia (nel sistema nervoso centrale), macrofagi alveolari (nei polmoni), macrofagi cardiaci (nel cuore), osteoclasti (nelle ossa). «Nel loro tessuto di destinazione, i macrofagi possono sopravvivere fino a 80 giorni e anche qui fagocitano gli elementi considerati dannosi o inutili, come batteri oppure cellule estranee, danneggiate e morte. Inoltre, possono contribuire anche alla riparazione di tessuti danneggiati».

Quali sono i livelli corretti di monociti nel sangue

Visti i ridotti tempi di permanenza, i monociti non sono molto abbondanti nel sangue, dove rappresentano circa l’1-6% di tutti i globuli bianchi. Facendo due calcoli, ciascuno di noi ha a disposizione tra i 400 e gli 800 monociti per millimetro cubo di sangue.

«Sopra questo range, è importante indagarne le cause, esaminando queste cellule non solo dal punto di vista quantitativo ma anche e soprattutto qualitativo per individuare al microscopio ottico eventuali anomalie nella loro morfologia e avviare quindi altre indagini ematologiche specifiche», tiene a precisare la professoressa Specchia.

Perché possono aumentare i monociti 

La cosiddetta monocitosi, cioè l’aumento dei monociti oltre i valori normali, caratterizza una lunga serie di condizioni cliniche: malattie infettive (come tubercolosi, febbre tifoide, endocardite batterica subacuta o malaria), malattie autoimmuni (come lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, miositi, poliartriti, colite ulcerosa o malattia di Crohn), post-splenectomia (cioè dopo l’operazione chirurgica di asportazione della milza), durante la fase di recupero ematologico che segue la chemioterapia oppure alcune forme di tumore, come carcinomi oppure linfomi di Hodgkin o non-Hodgkin.

«In questi casi si parla di monocitosi reattiva, che si distingue dalla forma neoplastica tipica della leucemia mielomonocitica cronica, un raro tumore del sangue che compare solitamente in età avanzata ed è caratterizzato proprio da una proliferazione abnorme di monociti», descrive l’esperta. Si tratta di una patologia clonale, perché alla base del processo patologico c’è una cellula progenitrice nel midollo osseo che trasmette il “difetto genetico acquisito” a tutte le altre che ne derivano.

Cosa fare sei i monociti sono alti

Il trattamento della monocitosi si basa sulla corretta identificazione della causa che l’ha generata. Ciò significa che il medico deve valutare clinicamente il paziente, facendo emergere eventuali sintomi (da indagare poi con altre indagini di laboratorio o strumentali) oppure condizioni che potrebbero giustificare il rialzo.

«Per esempio, chi assume il cortisone per lunghi periodi può riscontrare un aumento dei monociti», evidenzia la professoressa Specchia. Ovviamente, esistono anche monocitosi asintomatiche: «In questo caso, è consigliabile sottoporre il paziente a ulteriori emocromi nel tempo per monitorare se la monocitosi è stabile oppure aumenta», conclude l’esperta. «Nel secondo caso è bene interpellare un ematologo, perché è forte il sospetto che si tratti di una forma cronica di leucemia, per la cui diagnosi sono necessari test mirati quali la valutazione morfologica del midollo osseo e indagini citogenetico-molecolari».


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