Secondo i dati dell’Aid, Associazione italiana dislessia, in Italia gli studenti con diagnosi di dislessia, un disturbo specifico dell’apprendimento (Dsa) che colpisce l’abilità nella lettura, sono circa 350 mila.
Dal 2010, grazie alla legge 170, scuola e insegnanti sono tenuti a tenere conto delle diagnosi di dislessia e a mettere in atto strategie utili a tutelare il diritto allo studio di bambini e ragazzi. Ma che cosa succede quando la scuola finisce? Che ostacoli hanno ai colloqui di lavoro i ragazzi con dislessia? Ci sono aziende "dislexia friendly" anche in Italia? La tecnologia può aiutare l'inclusione nel mondo del lavoro? Se l'argomento ti interessa, puoi approfondirlo partecipando al convegno Strategie e tecnologie per l’inclusione che si terrà a Milano il 17 gennaio 2018 presso il Samsung District. Se l'argomento ti interessa, puoi approfondirlo partecipando al convegno che si terrà a Milano il 17 gennaio 2018, Strategie e tecnologie per l’inclusione, presso il Samsung District. L'ingresso è gratuito su iscrizione.
Ma la diagnosi di dislessia può arrivare anche da adulti. In tanti scoprono di esserlo. Per capire in quali casi si può ancora intervenire e a chi rivolgersi ne abbiamo parlato con la dottoressa Laura Paganelli, psicologa e psicoterapeuta a Milano. Ecco che cosa ci ha risposto.
Com'è possibile arrivare all’età adulta senza sapere di essere dislessici?
«Solo da qualche anno si parla di dislessia, anche se il disturbo è stato diagnosticato la prima volta alla fine dell’800, e solo nel 2004 è stata emessa una circolare nazionale che invitava gli insegnanti a tenere conto della diagnosi di dislessia.
Nella scuola ora il personale è informato sull’argomento, ma solo fino a qualche anno fa non era così. Di solito, poi, molti individui con disturbi specifici dell’apprendimento trovano strategie per compensare le loro difficoltà. Se il disturbo è lieve, magari non emerge fino alle superiori o all’università, quando il carico di lavoro diventa più elevato e la lentezza si rivela un vero ostacolo».
Quali sono i segnali d’allarme?
«Esiste, anche online, una check list standardizzata per consentire un’autovalutazione preliminare degli adulti che sospettano di essere dislessici. Comprende domande come: ha difficoltà a distinguere la destra dalla sinistra? Ha difficoltà a consultare le mappe o a leggere ad alta voce? Trova difficile cogliere e ricordare il senso di quello che legge, ha difficoltà nell’ortografia, la sua calligrafia è difficile da decifrare? Il punteggio che si ottiene una volta completato il questionario è solo indicativo della probabilità che si ha di essere dislessici.
Quali ricadute psicologiche può avere un Dsa negli adulti?
«Molti studi dimostrano che i disturbi del tono dell’umore e d’ansia sono più frequenti nelle persone con Dsa. I ripetuti fallimenti in ambito scolastico provocano una vera e propria ferita che non si rimargina nemmeno con gli anni.
I soggetti con Dsa spesso hanno ridotte aspettative di successo e meno perseveranza, un senso di impotenza e di inadeguatezza. Il Dsa può essere un trauma. Gli adulti spesso lo vivono come una vergogna perché hanno un’autostima deficitaria che si ripercuote anche sugli obiettivi che si pongono».
Ha senso cercare una diagnosi da adulti?
«Assolutamente sì: la diagnosi ha un valore terapeutico perché migliora la qualità della vita di chi si è sempre sentito inadeguato. Dando un nome e un motivo alle sue difficoltà il soggetto smette di sentirsi stupido, e conoscendone la natura scopre delle strategie per vivere meglio nel quotidiano.
La diagnosi giustifica certe mancanze. Poi la certificazione ha vantaggi di tipo pratico anche in ambito extrascolastico: per esempio, quando si affronta l’esame di teoria per la patente si possono avere le cuffie per “ascoltare” le domande, che sulla carta possono confondere».
A chi ci si deve rivolgere per una diagnosi? Quali esami si devono affrontare?
Esistono strategie utili sul lavoro e nella vita quotidiana?
«Molto dipende dal soggetto e dalla sua attività. Per tutti, in generale, è utile avere dei vademecum che descrivano certe operazioni. Ho un paziente, per esempio, che lavora in magazzino e deve evadere ordini. Lui ha un file con tutte le procedure divise in brevi step. Questo lo aiuta a non “perdere il filo”.
Altri ausili: per leggere evitando l’effetto crowding (cioè il senso di affollamento sulla pagina che non consente al dislessico di concentrarsi sulla parola) si può usare un segnalibro con finestrella che isoli un’unica riga. Gli audiolibri sono indicati per chi ha difficoltà nell’associare il segno grafico al suono. Per memorizzare un testo servono le mappe concettuali: danno una visione spaziale per chi ha una ridotta memoria verbale e a breve termine.
Per le presentazioni, anche sul lavoro, aiutano tecniche mnemoniche come quella dei loci (da Cicerone), che si basa sulla memoria visuospaziale. Ogni argomento viene collegato a un luogo noto. Si immagina di fare un viaggio toccando tutti questi luoghi, e mano a mano si affrontano gli argomenti collegati a ogni tappa. Infine c’è la Smartpen, che registra l’audio mentre si prendono appunti su fogli appositi. Dopo, basta puntarla su una parola per riascoltare ciò che è stato detto a quel proposito».
Lo Stato fa qualcosa per gli adulti?
«C’è una proposta di legge del 22/3/2017 per modificare la legge 170 del 2010. Prevede l’estensione degli strumenti compensativi (software specifici, pc con correttore, strumenti di sintesi vocale ecc.) anche nella valutazione extrascolastica e l’introduzione del responsabile dell’inserimento lavorativo per le persone con Dsa».
Un dislessico avrà figli dislessici?
«La componente genetica influenza l’abilità di lettura indipendentemente dal livello cognitivo generale. Ma non c’è nessuna certezza: si parla di familiarità. Non è mai stata dimostrata, finora, la trasmissione genetica diretta».
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Articolo pubblicato sul n. 4 di Starbene in edicola dal 09/01/2018