“Morire di crepacuore”, si diceva una volta per sottolineare il legame di causa-effetto tra i dispiaceri e il nostro organo vitale. Oggi, una ricerca condotta del Centro cardiologico Monzino di Milano, pubblicata sull’European Heart Journal, fa luce sui meccanismi che legano a doppio filo la depressione con l’infarto del miocardio. Lo studio, condotto in collaborazione con la Cornell University di New York, ha scoperto che a monte di questa correlazione esiste una variazione genetica. Ribattezzata “polimorfismo BDNFVal66Met”, riguarda il gene che codifica la neutrofina BDNF, tra i più importanti fattore di crescita che regolano la vita dei neuroni, le cellule del nostro sistema nervoso.
«Da tempo sappiamo che questa variazione genetica è alla base di alcuni disturbi psichiatrici come la depressione», dice il professor Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di psichiatria e neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. «E i dati mostravano che i depressi vanno più facilmente incontro a problemi cardiaci. Ora sappiamo perché». «Infarto e depressione hanno in comune lo stesso tipo di mutazione. Fatto che conferma in maniera inconfutabile quanto si presupponeva: che la depressione non è uno “stato psicologico”o un “malessere dell’anima”, ma una malattia organica a tutti gli effetti, con basi biologiche ben precise, in comune con la tendenza alla trombosi», continua lo psichiatra.
Ma qual è il ruolo di questa variante genetica nell’insorgenza delle patologie cardiovascolari? «La mutazione in comune ha un ruolo-chiave nell’attivazione piastrinica e nella conseguente formazione di trombi», risponde la professoressa Elena Tremoli, direttore scientifico dell’IRCCS Centro Cardiologico Monzino. «La facilità a formare trombi espone, quindi, i pazienti depressi a un maggior rischio di eventi cardiovascolari acuti. Per ora il legame diretto dimostrato è con l’infarto del miocardio ma sicuramente riguarda anche altre forme di trombosi arteriosa, come l’ictus o l’embolia polmonare.
Per questa ragione è importante che d’ora in avanti la depressione non venga sottovalutata, ma considerata un fattore di rischio cardiaco allo stessa stregua dell’ipertensione, del diabete, del colesteroloe e dei trigliceridi alti». L’ideale sarebbe che chi è depresso venga preso in carico anche da un cardiologo, per prevenire, attraverso gli esami e un buon controllo farmacologico, lo sviluppo della malattia coronarica.
I farmaci ad azione multipla
Arriveranno in primavera i nuovi antidepressivi multimodali, in grado di agire non soltanto sulla serotonina ma anche su altri neurotrasmettitori(adrenalina, noradrenalina, dopamina, ecc) implicati nella depressione. «Il capostipite di questa nuova classe di farmaci si chiama vortioxetina e, rispetto ai comuni serotoninergici, è in grado non solo di alzare il tono dell’umore ma anche di combattere altri sintomi legati alla depressione come la mancanza di energie e di capacità di concentrazione, i deficit della memoria e le continue distrazioni», spiega Mencacci. «L’aggettivo multimodale si riferisce, infatti, alla sua capacità di “suonare” più tasti di questa malattia dalle mille sfaccettature». A fronte di un’azione più completa, la vortioxetina ha dato prova di avere una buona sicurezza d’uso e di non fare prendere peso, il più temuto effetto collaterale degli psicofarmaci.
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Articolo pubblicato sul n.8 di Starbene in edicola dal 09/02/2016