Un intervento chirurgico, un’ustione, un trauma (taglio o ferita), un incidente o una rovinosa caduta dalla moto che, strisciando sull’asfalto, ha provocato profonde abrasioni cutanee.
Che sia estesa come quella del parto cesareo o piccola, come quella legata all’asportazione di un neo o di una cisti sebacea, la formazione di una cicatrice porta con sé molti timori, specie se si localizza nelle aree più visibili del volto o del collo. E anche se l’avvento dei punti di sutura riassorbibili ha migliorato la cicatrizzazione, la paura che rimangano dei segni indelebili resta. Ma da cosa dipende una buona cicatrizzazione?
I FATTORI CHE REMANO CONTRO
«Contrariamente a quanto si pensa, la mano del chirurgo conta fino a un certo punto», risponde il dottor Mario Goisis, chirurgo estetico specializzato in chirurgia maxillo-facciale, direttore dei Centri Doctor’s Equipe presenti in diverse città italiane. «Ci sono pazienti che hanno una predisposizione a una cattiva rimarginazione, sia per le intrinseche qualità della pelle, sia perché alcune condizioni patologiche, come la presenza di diabete, la carenza di U vitamine K, B e C o l’uso di farmaci immunosoppressori, possono rallentare il processo di guarigione o favorire una cicatrice anomala. Tra le persone geneticamente predisposte alla formazione di brutti segni, gli studi hanno rilevato un’aumentata sintesi di alcuni mediatori chimici (citochine profibrotiche) che, provocando reazione infiammatorie, spianano la strada alle cicatrici ipertrofiche o ai cheloidi. Va inoltre ricordato che la stessa giovinezza può essere un fattore negativo. Più la pelle è elastica, infatti, più è reattiva a traumi e ferite. Si innesca, quindi, un processo di riparazione che, a volte, diventa eccessivo: i fibroblasti del derma sono stimolati a produrre più fibre di collagene ed elastina per formare il tessuto di guarigione. E ciò può causare una cicatrice “esuberante” come, appunto, quelle ipertrofiche o cheloidee».
LE PRIME MISURE DA ADOTTARE
Genetica a parte, è possibile mettere in atto un piano d’azione per favorire la presenza di linee sottili, chiare, piane e con i margini regolari, fin da quando la sutura è ancora fresca.
La prima regola consiste nel disinfettare tutti i giorni la ferita, per due settimane, perché la nemica numero uno di una buona cicatrizzazione è l’infezione. «Raccolte di sangue (ematomi) o di siero purulento, che si formano quando la ferita si infetta, ne ritardano la guarigione e aumentano il rischio di cicatrici irregolari», avverte il dottor Goisis. «Inoltre, è bene proteggere la pelle, per i primi 5-6 mesi, con dei cerotti al silicone medicale, venduti in farmacia. Non solo esercitano una compressione meccanica, evitando che i bordi della cicatrice si sollevano, ma lo stesso silicone vantano un’azione occlusiva che inibisce l’iperattività dei fibroblasti. A ogni cambio di cerotto, è utile abituarsi a massaggiare la cicatrice con i polpastrelli delle dita per orientare bene le fibre di collagene. Inoltre è importante sorvegliarne l’aspetto, in modo da intervenire appena si vede che sta diventando ipertrofica. Fatto che, in genere è segnalato da rossore, prurito e, a volte dolore, i tre segnali di una reazione infiammatoria postcicatriziale». In questo caso, oltre al massaggio e all’uso di cerotti compressivi, occorre utilizzare gel e pomate ad hoc, come quelle a base di allium cepa (estratto di cipolla), silicone liquido e aloe barbadensis. Fra le ultime novità reperibili in farmacia, ci sono linee dermocosmetiche con fiale o creme a base di isoamminoacidi essenziali (valina, leucina, isoleucina).
“Mattoncini” delle proteine cutanee, non vengono sintetizzati dall’organismo e perciò vanno forniti dall’esterno per favorire la corretta sintesi proteica. Tra gli attivi di ultima generazione, formulati per prevenire l’evoluzione anomala delle cicatrici e migliorarne l’aspetto, figura anche il Dna sodico. Oltre a svolgere un’azione elasticizzante, favorisce la rigenerazione cellulare. L’importante è usare i prodotti con costanza, mattino e sera, per almeno quattro mesi. Penetrando nella pelle pulita e asciutta, favoriscono la compattezza della cute e la levigatezza della cicatrice.
IPERTROFICHE O CHELOIDEE?
In caso di lesioni di vecchia data, si possono manifestare tre problemi: la formazione di cicatrici ipertrofiche, di cheloidi o di depressioni cutanee. Possono apparire in qualsiasi parte del corpo, ma interessano soprattutto le aree in cui la pelle è più soggetta a trazioni, come quelle mediane del torace (l’accesso per gli interventi di cardiologia) o quelle della spalla o del ginocchio.
«Nel primo caso la cicatrice diventa rossa e in rilievo come un cordoncino, ma non deborda dai margini, mentre in caso di cheloidi si forma un tessuto debordante la cicatrice stessa, rosso e tumefatto, simile a un tumore cutaneo», spiega il professor Valerio Cervelli, ordinario di chirurgia plastica ricostruttiva all’Università Tor Vergata di Roma. «Per levigare le cicatrici ipertrofiche si fanno delle infiltrazioni di corticosteroidi al loro interno (da 3 a 10 sedute): oltre a spegnere l’infiammazione, inibiscono l’attività proliferativa dei fibroblasti, portando a un appiattimento della lesione e riducendone il prurito. Stessa terapia anche per i cheloidi, che possono raggiungere dimensioni notevoli arrivando a limitare la funzionalità di un arto. In alternativa al cortisone, si può iniettare un farmaco chemioterapico, il 5 fluorouracile, al fine di disgregare il tessuto in eccesso. Per favorire la normalizzazione di cicatrici ipertrofiche e cheloidi, inoltre, sono utili 3-5 sedute di laser vascolare (1540 e 2036 nm): realizzando una fotocoagulazione dell’emoglobina, sigillano i vasi sanguigni con il risultato di schiarire la lesione e di appiattirla. Infine, per cheloidi estesi, dolorosi e deturpanti l’aspetto si può valutare la loro escissione chirurgica, nonché il ricorso alla crioterapia, che “brucia” la lesione con il freddo (azoto liquido a – 196°C), o alla radioterapia, effettuata inserendo all’interno aghi radioattivi».
CONTRO LE DEPRESSIONI CUTANEE
E che dire delle cicatrici ipotrofiche e depresse, l’opposto dei cheloidi? Sono il brutto ricordo di abrasioni sull’asfalto, colpi di coltello o interventi chirurgici (come la quadrantectomia) che hanno comportato l’asportazione di uno “spicchio” di tessuto.
«Lo scorso novembre la Società Internazionale di Ingegneria Tissutale e Medicina Rigenerativa ha pubblicato una review, basata sui risultati di 858 pubblicazioni, in cui definisce il nanofat grafting (l’innesto di grasso autologo) la tecnica migliore per le cicatrici infossate», spiega il dottor Mario Goisis. «Basta prelevare dai fianchi e dall’addome una piccola quantità di grasso, che viene filtrato ed emulsionato ma non centrifugato, come si faceva nel lipofilling, per non distruggere il patrimonio di cellule staminali. Iniettato nella depressione con una siringa o una sottile ago-cannula, il grasso non solo la riempie fisicamente ma in virtù del potere rigenerante delle staminali stimola la formazione di un nuovo tessuto. Così si appiana uniformandosi alla pelle circostante, nel giro di 8-10 mesi». In genere servono due sedute, che costano 500 € l’una.
LA TERAPIA MANUALE CHE “SCOLLA” LE ADERENZE
Bel problema, le aderenze cicatriziali. Perché il tessuto fibroso sottocutaneo che si forma sotto la cicatrice arriva a “imbrigliare” e a connettere organi normalmente non collegati tra loro, come muscoli, tendini e legamenti.
«Nel tessuto connettivo si forma così una specie di “placca” rigida che non solo provoca tensione e dolore, ma spesso finisce con il modificare il piano sagittale della colonna vertebrale, condizionando la postura», spiega Giovanna Cau, massofisioterapista a Milano. «Non di rado, infatti, mi capita di trattare pazienti che hanno subito un intervento all’addome, all’articolazione della spalla o del ginocchio che, per via delle aderenze cicatriziali, manifestano squilibri posturali, legati all’azione delle stesse sui recettori cutanei».
Pochi, però, sanno che con un semplice massaggio manuale si può risolvere e persino prevenire il problema. Non appena la ferita si è completamente rimarginata, è importante massaggiarla tutti i giorni, per almeno sei mesi, con manovre di frizione e digitopressione in modo da appiattirla il più possibile.
«Per cicatrici di vecchia data, invece, occorre affidarsi a un massofisioterapista esperto nelle manovre di frizione e scollamento, mirato a scollare il derma superficiale e profondo dalle sottostanti fasce muscolari», dice Giovanna Cau. «Per mio conto, utilizzo una crema all’arnica ed eseguo un massaggio profondo teso a riattivare la circolazione sanguigna e linfatica. In cinque sedute (80 € l’una), frizionando e scollando i tessuti adesi, si riesce a rivitalizzare tutta l’area cicatriziale che da atrofica, priva di peli e di ghiandole sebacee, comincia a riossigenarsi e a riprendere la funzionalità cutanea. Al termine del ciclo la cicatrice risulta più sottile, chiara e liscia. Quasi invisibile».
VIA I SEGNI DALL’ESTATE!
Mare, sabbia, sole, tuffi in piscina a ripetizione. Attenzione! Se la cicatrice è recente è bene non esporre la pelle al sole né tuffarsi in acque clorate o poco pulite. Meglio proteggerla con un cerotto post-operatorio idrorepellente, impermeabile all’acqua e ai germi, che evita anche il contatto con irritanti granelli di sabbia.
E il sole? «Per i primi sei mesi l’esposizione diretta alla luce solare va evitata, perché i raggi ultravioletti aggravano l’infiammazione della cicatrice, quando è rossa», spiega Norma Cameli, dermatologa presso l’Istituto dermatologico San Gallicano di Roma. «Inoltre gli UV possono favorire la sua iperpigmentazione post-infiammatoria rendendola più scura ed evidente. Dopo i primi mesi, invece, niente cerotti ma l’uso costante di una crema solare con Spf 50+».
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Articolo pubblicato sul n. 33 di Starbene in edicola dal 31/7/2018