Chirurgia bloodless senza trasfusioni: i vantaggi, quando si usa

Quando il paziente non vuole o non può ricevere sangue “estraneo”, particolari protocolli pre e intra-operatori possono limitare il rischio di dover ricorrere a trasfusioni ematiche



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Nonostante l’abilità dei chirurghi, i pazienti possono perdere molto sangue durante alcuni interventi e necessitare di una trasfusione salva-vita. Nel corso degli anni, il mondo medico si è ingegnato per andare incontro alle esigenze di chi non vuole o non può ricevere sangue “estraneo”: è il caso dei Testimoni di Geova, per esempio, che rifiutano la terapia trasfusionale per credo religioso, ma anche dei pazienti anziani con arteriopatia periferica, che comporta una riduzione dell’ossigeno trasportato alle diverse parti del corpo.

«Questo ha portato alla messa a punto di un protocollo preventivo e procedurale che mira a ridurre la perdita di sangue durante gli interventi e, dunque, il bisogno di ricorrere a trasfusioni ematiche», descrive il dottor Mauro Del Giglio, responsabile dell’Unità operativa di Cardiochirurgia del Maria Pia Hospital di Torino.

Cos’è la chirurgia bloodless

La chirurgia bloodless (dall’inglese “senza sangue”) prevede una serie di azioni, tecniche e strumenti suggeriti dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal Ministero della salute italiano attraverso dettagliate linee guida, ancora poco recepite dagli ospedali.

Si è iniziato a parlarne nel 1977, quando il cardiochirurgo statunitense Denton Cooley (famoso in tutto il mondo per aver eseguito il primo impianto di cuore artificiale) pubblicò la sua esperienza al Texas Heart Institute di Houston su oltre 500 pazienti che non accettavano l’emotrasfusione per motivi religiosi. «Da allora, gli enormi passi avanti della chirurgia hanno permesso di creare un particolare percorso pre- e intra-operatorio che “risparmia” sangue», spiega il dottor Del Giglio.


Quando si può utilizzare la chirurgia bloodless

In linea teorica, tutti gli interventi possono essere eseguiti con tecnica bloodless, previa valutazione clinica del paziente. Non solo cardiochirurgia, ma anche chirurgia protesica, addominale, vascolare, urologica, maxillo-facciale ed epatica possono avvantaggiarsi di questi speciali protocolli, che comportano un decorso post-operatorio più rapido, agevole e meno gravato da complicanze.


Come funziona la chirurgia bloodless: i farmaci

Il paziente candidato alla chirurgia bloodless va preparato con largo anticipo, almeno un mese prima (quando possibile) rispetto all’intervento programmato. «A quel punto, si possono somministrare speciali farmaci per aumentare il tasso di emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno nel sangue, e curare un’eventuale anemia pre-operatoria», racconta il dottor Del Giglio.

«Nello specifico parliamo dell’eritropoietina, un ormone prodotto dai reni che stimola il midollo osseo a produrre globuli rossi, ma anche di ferro, vitamina B12 e acido folico, tutti “mattoncini” utili per formare l’emoglobina».

Ovviamente è anche possibile intervenire in emergenza, delineando rischi e possibilità in stretto accordo con il paziente e i suoi famigliari: «Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet ha dimostrato, infatti, che la somministrazione di questo cocktail di farmaci un giorno prima dell’intervento concorre a diminuire la necessità di dover ricorrere a trasfusioni nei pazienti con livelli di emoglobina non ottimali», riferisce l’esperto.

Come funziona la chirurgia bloodless: le procedure

Oltre ai farmaci, il chirurgo studia in maniera approfondita l’anatomia del paziente per operare riducendo al minimo le perdite ematiche e attuando una serie di accorgimenti, come l’utilizzo di poche garze (che tendono ad “assorbire” il sangue) e il loro accurato lavaggio tramite un apposito macchinario che recupera il sangue contenuto all’interno.

«Un’altra strategia riguarda, per esempio, gli interventi cardiochirurgici che vanno eseguiti a cuore fermo ed esangue, quando bisogna ricorrere alla circolazione extra-corporea, un dispositivo che sostituisce temporaneamente le funzioni cardio-polmonari, assicurando l’irrorazione di organi e tessuti durante l’atto operatorio», illustra il dottor Del Giglio.

«Prima di attivare questa forma di circolazione, il paziente può essere sottoposto a un salasso terapeutico: in pratica, gli viene prelevata una certa quantità di sangue da re-infondere una volta ultimata la procedura. Questo è utile perché la circolazione extra-corporea diminuisce la vitalità del sangue e rende meno attivi i suoi elementi corpuscolati. Per evitare la necessità di trasfusioni, a fine intervento si re-infonde il sangue ricavato dal salasso per restituire efficienza immediata al circolo sanguigno, meglio se con farmaci che contrastino l’anti-coagulazione».

All’occorrenza, poi, anziché conservare questo sangue in una sacca, con un sistema di tubicini è possibile praticare una particolare autotrasfusione senza interrompere la continuità tra il circuito di prelievo e il paziente (fondamentale per i Testimoni di Geova).

Quali sono i vantaggi della chirurgia bloodless

L’utilizzo della chirurgia bloodless comporta una serie di vantaggi clinici non indifferenti: elimina il rischio di infezioni trasmesse dal sangue, che non potrà mai essere sicuro al 100%, ed evita tutti gli svantaggi legati alle trasfusioni.

«Le sacche che vengono utilizzate contengono globuli rossi concentrati, non sangue intero, per cui queste cellule sono meno vitali rispetto alla corrispondente quantità di sangue fresco», tiene a precisare il dottor Del Giglio. «In qualche modo, le trasfusioni vanno a rimpiazzare il volume di sangue che perdiamo, ma non la sua efficienza. Ciò significa che ogni trasfusione comporta sempre un piccolo danno all’organismo, perché i tessuti vengono ossigenati in maniera sub-ottimale, cioè meno perfetta, per cui si possono sviluppare più facilmente delle complicanze post-operatorie».

Inoltre, siccome il sangue non è un farmaco e non si fabbrica, non è neppure infinito: è un bene prezioso, da risparmiare il più possibile. Produrre globuli rossi efficienti in laboratorio è il sogno di tutti gli ematologi: tecnicamente è già possibile, ma resta il problema delle quantità, perché la resa è ancora molto bassa e i costi sono proibitivi. Anche se la prospettiva è di sicuro interesse, al momento i donatori volontari rappresentano le uniche fonti di approvvigionamento, che alimentano un patrimonio collettivo di cui ciascuno può usufruire al momento del bisogno.

Un’esperienza che fa scuola

Di recente al Maria Pia Hospital di Torino, con la chirurgia bloodless è stato sottoposto per la terza volta a un intervento cardiochirurgico il giovane Alessandro, 26enne ligure affetto da Tetralogia di Fallot, una delle cardiopatie congenite più trattate ma anche più complesse, in quanto vede la concomitanza di quattro anomalie cardiache che riducono l’afflusso di sangue ossigenato al corpo e compromettono il regolare funzionamento dell’organo.

In altri ospedali, Alessandro era stato sottoposto a un primo trattamento alla nascita e a un secondo nel 2013 per l’inserzione di una protesi chirurgica valvolare polmonare, che negli anni successivi è andata incontro a una fisiologica degenerazione severa.

«La situazione attuale richiedeva un ulteriore intervento, che è stato valutato dagli ospedali di diverse città perché, alla complessità della chirurgia, si aggiungeva anche la richiesta da parte del paziente di evitare qualsiasi trasfusione di sangue», riferisce Del Giglio. «Tutti i re-interventi hanno un elevato rischio di sanguinamento a causa delle cosiddette aderenze, cioè della formazione di un tessuto fibroso che finisce per connettere due parti dello stesso organo che dovrebbero essere separate o addirittura organi distinti. Scindere queste aderenze per poter re-intervenire è fonte di abbondanti sanguinamenti».

Gli altri ospedali avevano escluso sia la possibilità di procedere con l’inserimento di una nuova valvola con tecnica percutanea all’interno di quella degenerata sia l’eventualità di eseguire un intervento di cardiochirurgia “open”, giudicato non fattibile data la scelta di rifiutare trasfusioni (con la chirurgia “a cielo aperto” sussiste un maggiore rischio di sanguinamento). «Dopo aver valutato attentamente le condizioni di Alessandro, la nostra équipe ha deciso di operarlo con la chirurgia bloodless, dimettendolo dopo sette giorni di degenza con una buona condizione cardiaca», conclude l’esperto.


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