Sensazione di appannamento, restringimento del campo visivo, bruciore oculare e altri disturbi legati alla vista sono aumentati nel post-pandemia. In particolare, secondo un’analisi dell’Ospedale San Giuseppe di Milano, la cosiddetta “cecità funzionale” deriva dal profondo impatto sulla salute mentale che il Covid-19 ha avuto su ampie fasce della popolazione.
«L’aggettivo “funzionale” indica l’assenza di una patologia organica alla base dei sintomi. Significa che nessuna indagine oculistica riuscirebbe a identificarne la causa», spiega il dottor Andrea Lembo, medico oftalmologo dell’Ospedale San Giuseppe – MultiMedica di Milano. «Prima della pandemia, solo qualche rivista di neurologia o neuroftalmologia trattava saltuariamente la cecità funzionale, descrivendola come una problematica che derivava da una componente emotiva oppure dal malingering, una simulazione intenzionale di malattia per ottenere un determinato vantaggio».
Cos'è la cecità funzionale
In base alla ricerca, su un totale di circa 3.600 soggetti visitati in entrambi i periodi, i casi di perdita visiva funzionale sono stati 144 nel pre-pandemia contro i 326 del post, con un raddoppio dell’incidenza passata dal 4 al 9 per cento. In questi numeri, rientrano diverse casistiche di pazienti. «Nel caso del malingering, la persona “finge” di non vedere per scopi fraudolenti, ad esempio per evitare lo svolgimento di alcune mansioni lavorative, un po’ come quando i bambini simulano di avere il mal di gola per non andare a scuola», descrive il dottor Lembo.
«In altri casi, invece, esiste un disturbo di conversione: il paziente ha effettivamente un problema visivo, ma questo gli crea una tale preoccupazione da essere esacerbato nell’intensità. Oppure, la persona soffre di un’altra patologia e, dopo anni di isolamento o di lavoro autonomo con ridotti contatti sociali, ha sviluppato una somatizzazione del disagio con un sintomo visivo. Un esempio: ho sempre mal di testa e mi convinco che da quel problema derivino dei deficit di vista».
E poi c’è la cecità funzionale vera e propria: qui, il soggetto non lo fa intenzionalmente, non c’è neppure una patologia di base, ma la componente emotiva porta a convincersi di non vedere. «Riteniamo che l’aumento di questi casi, riscontrato negli ultimi mesi, possa essere correlato alle conseguenze della pandemia da Covid per i profondi cambiamenti psicosociali che ha portato con sé», riflette l’esperto.
Quali sono i sintomi della cecità funzionale
La sintomatologia della cecità funzionale è poco specifica: può essere un calo visivo, la sensazione di bruciore o di visione offuscata. «Qualunque disturbo della vista va sempre indagato con l’aiuto di uno specialista, soprattutto quando non si autolimita, cioè non si risolve da solo nell’arco di breve tempo», evidenzia il dottor Lembo.
«Dietro un deficit visivo, infatti, può nascondersi un inizio di miopia, una congiuntivite, fino a una malattia neurologica importante come la sclerosi multipla. C’è un mondo davvero vasto, che va esplorato e compreso a fondo. Con il gruppo di lavoro del professor Paolo Nucci, mio mentore, da anni volgiamo l’attenzione a un approccio empatico con il paziente. Prima della diagnosi, è importante capire chi abbiamo davanti».
Come si arriva alla diagnosi di cecità funzionale
La diagnosi della cecità funzionale avviene spesso per esclusione, partendo da un’accurata anamnesi medica che serve innanzitutto a cogliere l’eventuale incompatibilità tra i sintomi riferiti dal paziente e la sua quotidianità (per esempio, dice di non vedere ma gioca a tennis), avvalendosi di eventuali esami strumentali, volti a escludere altre patologie.
«Per lo specialista, quindi, è fondamentale capire se il deficit è congruo o meno, cioè se il sintomo corrisponde alla storia clinica e personale del soggetto», tiene a precisare il dottor Lembo.
Come si tratta la cecità funzionale
La prima terapia della cecità funzionale consiste nella rassicurazione del paziente. «Rassicurare non significa sottovalutare o sminuire quello che ci riferiscono gli assistiti, ma aiutarli a individuare strategie efficaci per attenuare i sintomi che lamentano», spiega il dottor Lembo. «Intendo suggerimenti anche molto semplici, come guardare trenta secondi fuori dalla finestra per non sovraccaricare l’accomodazione dell’occhio in un videoterminalista o chiudere gli occhi cinque secondi per farli riposare e capire se le immagini della lavagna tornano nitide in un bambino in età scolare».
Talvolta, rassicurare il paziente sul fatto che il problema lamentato non è dovuto a una patologia organica e che “passerà” può essere sufficiente per rivolvere la sintomatologia in un arco di tempo variabile. «In rari casi può essere indicato un percorso psicoterapeutico, mentre più spesso è utile una “rieducazione” del paziente: quando avverte quel sintomo, lo si invita a riflettere sul fatto che probabilmente ha una soglia di fastidio esagerata rispetto alla realtà».
Talvolta, poi, si può arrivare a utilizzare l’effetto placebo. «Nei pazienti che continuano a riferire un certo sintomo, soprattutto bambini, si possono prescrivere degli occhiali con lenti neutre oppure un collirio a base di acido ialuronico, le famose lacrime artificiali. In diversi casi funzionano, evidentemente perché il paziente si sente in qualche modo protetto», conclude il dottor Lembo.
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