Ha fatto scalpore la notizia che la multinazionale americana Pfizer ha abbandonato gli studi sul morbo d’Alzheimer. «Meglio investire altrove, perché la ricerca farmacologica nell’ambito delle malattie neurodegenerative dà scarsi risultati», ha dichiarato il portavoce dell’azienda. Una brutta notizia, certo.
C’è di buono, però, che molte altre aziende continuano a investire in questo campo (vedi qui di seguito) e che l’Alzheimer beneficia di un approccio multidisciplinare, che va ben oltre la “pillola della speranza”.
Tant’è che si stanno diffondendo con successo trattamenti non farmacologici, che cercano di arrestare il declino cognitivo per altre vie.
La terapia con le attività ricreative
«La terapia di stimolazione cognitiva chiamata Cst (Cognitive Stimulation Therapy) è un metodo americano, adattato alla cultura italiana», spiega il professor Sandro Sorbi, neurologo presso l’ospedale Careggi di Firenze e presidente dell’Airalzh, la Onlus nata nel 2014 alla scopo di promuovere nelle università italiane la ricerca sull’Alzheimer.
«Prevede delle attività ludiche e ricreative, come giochi da tavolo, disegno e pittura, fatte in piccoli gruppi. Attualmente è in corso uno studio, finanziato da Airalzh e condotto dalla dottoressa Francesca Ferrari Pellegrini del dipartimento di neurologia dell’Università di Parma, che coinvolge 52 pazienti di 9 centri italiani.
Dai risultati è emerso che, grazie alle tecniche di Cts, si rallenta il declino della memoria e delle funzioni cognitive e si migliorano i sintomi comportamentali».
I giochi in realtà virtuale
Molto efficace è anche la stimolazione attraverso la realtà virtuale (Vr). «Indossando visori simili agli occhiali da motociclista, il paziente viene proiettato in una realtà simulata con la quale deve interagire», prosegue il professor Sorbi.
«Per esempio, deve cercare dei pelati tra gli scaffali del supermercato, preparare un piatto o riordinare del libri. È un training della memoria divertente, che molti pazienti fanno più volentieri delle parole crociate e dei rebus».
La Vr per riabilitare le funzioni cognitive viene proposta, ad esempio, dall’Istituto Don Gnocchi di Milano e di Firenze, e all’Auxologico di Milano.
La stimolazione magnetica transcranica
La Tms, adottata per curare la depressione e la dipendenza da cocaina, viene usata a livello sperimentale (per esempio, all’ospedale Careggi di Firenze, al Santa Lucia di Roma e agli Ospedali Riuniti di Brescia) anche per frenare il decadimento cognitivo.
«Con sonde appoggiate ai lati della testa, si invia una sequenza di impulsi magnetici atta a stimolare il lobo temporale, sede della memoria, del linguaggio, dell’apprendimento e dell’orientamento visuo-spaziale», spiega Sandro Sorbi.
A che punto è la ricerca
Se la Pfizer ha gettato la spugna altre aziende farmaceutiche proseguono sul fronte della ricerca, e alcune nuove molecole sono in dirittura d’arrivo.
«Entro la fine del 2018 arriveranno i risultati definitivi di lanabecestat, un anticorpo monoclonale “programmato” per bloccare la proteina betaamiloide che si accumula nei neuroni, al centro di uno studio multicentrico su migliaia di pazienti», spiega il professor Sorbi.
«Ed entro il 2019 saranno pubblicati i dati di un altro farmaco in corso di studio in fase II, aducanumab, sempre in grado di evitare gli accumuli della famigerata proteina, ponendo un freno al decadimento cognitivo.
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Articolo pubblicato sul n. 6 di Starbene in edicola dal 23/01/2018