In latino, ictus significa colpo. E infatti la caratteristica principale dell'ictus cerebrale è proprio la sua insorgenza improvvisa: di colpo, una persona in pieno benessere può accusare sintomi legati alla morte delle cellule cerebrali, causata dalla rottura (emorragia) o dall’occlusione (ischemia) di un’arteria. A quel punto, i neuroni non ricevono più un normale flusso di sangue, per cui vengono privati dell’ossigeno e degli altri nutrienti, iniziando a morire a una rapidità galoppante: «Per ogni ora in cui il tessuto cerebrale non riceve abbastanza sangue da soddisfare i suoi bisogni metabolici, muore lo stesso numero di neuroni e sinapsi che normalmente perdiamo in tre anni di vita», spiega il professor Danilo Toni, direttore dell’Unità di Trattamento neurovascolare presso il Policlinico Umberto I di Roma e presidente del Comitato tecnico-scientifico dell’Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale. «Ecco perché in questo settore vale il concetto del “time is brain”, letteralmente “il tempo è cervello”, perché ogni minuto è fondamentale e può salvare la vita».
Cos’è l’ictus cerebrale
In Italia, l’ictus cerebrale rappresenta la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e i tumori, ed è la prima causa assoluta di disabilità. «Siccome è causato dall’improvvisa chiusura o rottura di un vaso cerebrale e dal conseguente danno ai neuroni, la ricerca sta puntando a mettere a punto nuove strategie di intervento», racconta l’esperto.
«Per esempio, in caso di ischemia, oggi sono disponibili trattamenti endovascolari che permettono di raggiungere la zona in cui è presente l’ostruzione, “catturare” il coagulo e ricostituire un passaggio per il flusso sanguigno. Spesso, però, riaprire l’arteria non basta: nei capillari circostanti possono formarsi degli aggregati di piastrine, che impediscono un’adeguata riperfusione del tessuto cerebrale. Sono quindi allo studio dei farmaci finalizzati proprio a far arrivare il sangue anche a livello capillare, in modo da “salvare” più cervello».
Quali sono i primi segnali
L’ictus è una patologia tempo-dipendente, perché il cervello è un organo delicatissimo e un processo degenerativo può diventare irreversibile in breve tempo. Per questo motivo, è fondamentale riconoscere in fretta i primi segnali, che sono diversi e dipendono dalla zona cerebrale che è stata danneggiata.
«In generale, deve preoccupare la comparsa improvvisa di alcuni disturbi, come l’incapacità di esprimersi e di pronunciare o articolare le parole, il calo di forza o di sensibilità alla metà destra o sinistra del corpo, la perdita di visione da un solo occhio oppure in una metà del campo visivo, la difficoltà a mantenere l’equilibrio e stare in piedi, la bocca storta a causa della debolezza dei muscoli facciali», elenca il professor Toni. Di fronte a uno o più di questi sintomi, è importante chiamare subito il 118, perché la possibilità di essere curati è legata alla precocità dell’intervento medico.
Cosa succede al cervello dopo un ictus
Abbiamo detto che l’ictus priva di sangue, e quindi di ossigeno, una parte del cervello. «Se la causa è un’ischemia, si instaurano dei processi neurotossici che portano a necrosi, cioè a morte, tutte le cellule nutrite dall’arteria che si è ostruita. In caso di emorragia, invece, c’è sempre una parte di cervello che non riceve più il giusto nutrimento, perché il sangue è stravasato, ma si somma anche l’effetto massa che l’ematoma svolge sul tessuto circostante, comprimendolo e danneggiandolo».
Quando si è fuori pericolo
Le prime 48-96 ore dopo il ricovero sono le più delicate: in quell’arco di tempo, i medici mantengono la prognosi riservata, perché la malattia è suscettibile di evoluzioni imprevedibili e pertanto non è possibile formulare ipotesi precise. «In questa prima fase si possono registrare alterazioni importanti della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, si sviluppa l’edema cerebrale intorno all’area ischemica o emorragica, si può assistere a un peggioramento delle condizioni generali».
Superate queste ore, il personale medico può concentrarsi sulla prognosi funzionale, sia in termini di sopravvivenza a medio-lungo termine sia in termini di disabilità residua: questa dipende sia dal tipo di lesione e dalla sua estensione, sia da come si riescono a prevenire e trattare le complicanze respiratorie, cardiache, infettive e metaboliche dell’ictus.
Come si vive dopo
Una volta dimessi dall’ospedale, i pazienti si ritrovano spesso a fare i conti con gli esiti derivanti dall’ictus, che dipendono dalla zona cerebrale interessata dalla lesione. Per esempio, alcuni possono avere difficoltà di comunicazione: questo disturbo (definito afasia) può essere di comprensione, quando la persona si esprime in modo fluente ma non comprende ciò che le viene detto, oppure di espressione, quando avviene esattamente il contrario.
In altri casi si possono manifestare disfagia (difficoltà a deglutire), demenza vascolare (cioè una compromissione delle funzioni mentali, che in genere si manifesta con alterazioni di memoria, orientamento e carattere), spasticità (l’aumento del normale tono muscolare a riposo), cefalea e altri dolori. «Oggigiorno è possibile far recuperare in maniera significativa una condizione di discreta, se non completa, autosufficienza al 50 per cento dei pazienti ischemici. La percentuale si abbassa in caso di emorragia, che generalmente ha un’estensione medio-grande e quindi ha una prognosi più severa».
Se e quando si guarisce
Per ricevere le cure migliori, è fondamentale rivolgersi a un ospedale dotato di un’unità neurovascolare dedicata alla gestione dei pazienti con ictus acuto. «Per fortuna in molte regioni si è creata una rete di centri di primo e secondo livello per la cura dell’ictus, tant’è che almeno l’80 per cento dei pazienti viene ricoverato in queste strutture», riferisce l’esperto. «Ci sono aree del sud, però, dove la percentuale si ferma al 50 per cento, perché questa rete è meno sviluppata, per cui scende il numero di pazienti appropriatamente ricoverati nelle unità neurovascolari».
La buona notizia è che dall’ictus si può guarire o, per lo meno, si possono limitare i danni che ne derivano, al punto da consentire al paziente una qualità di vita soddisfacente. «Se l’ictus ha comportato solo lievi limitazioni fisiche, cognitive e psicologiche, è importante seguire uno stile di vita attivo, che rappresenta uno dei punti chiave anche nella prevenzione. Questo significa praticare un’attività fisica adeguata, che può semplicemente significare muoversi a piedi negli spostamenti quotidiani, salire e scendere le scale, utilizzare la bicicletta al posto dell’auto, fare lavori domestici, dedicarsi al giardinaggio, giocare al parco con figli o nipoti».
Chi ha avuto un ictus può avere recidive?
È difficile prevedere chi avrà una recidiva: in genere, nel primo anno dalla comparsa dell’evento, si corre effettivamente il pericolo di una ricaduta, pari circa al 10 per cento, che si riduce alla metà l’anno successivo e ulteriormente in seguito. «Non per forza le recidive sono eventi particolarmente gravi, ma fare previsioni è impossibile. Per questo, è importante effettuare controlli frequenti e identificare i fattori di rischio per correggerli», raccomanda il professor Toni.
Come fare prevenzione
Contrastare la sedentarietà è una delle prime regole per prevenire l’ictus, perché l’attività fisica riduce il sovrappeso e regolarizza pressione sanguigna, glicemia e colesterolo, che rappresentano i principali fattori di rischio per le patologie cerebro-cardiovascolari.
«In caso di patologie già conclamate bisogna invece trattare ipertensione arteriosa, diabete di tipo 2, colesterolo alto e cardiopatie, evitando il fumo di sigaretta e mangiando in maniera equilibrata per contrastare l’obesità». E queste attenzioni valgono in qualunque fascia di età, perché nessuno è veramente al riparo dal rischio: «Basti pensare che ogni anno, fra i 18-49 anni, si registrano 4000 casi di ictus, fra cui 2500 ischemici, rispetto alle 2 mila nuove diagnosi di sclerosi multipla, considerata tipicamente una malattia giovanile», conclude il professor Toni.
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