Tre donne e il racconto di un parto difficile che si intreccia tra loro come un filo inestricabile. È l’anima de Il tessuto bianco (Amazon), il nuovo romanzo dello scrittore Marcello Di Fazio, che affronta con delicatezza un tema forte, quello della violenza ostetrica. Che significa scortesia, visite inutili durante il travaglio, episiotomia (il taglio del perineo, il muscolo tra ano e vagina) e manovra di Kristeller, prassi vietata in molti Paesi europei, in cui il medico spinge con l’avambraccio sulla pancia della partoriente per favorire l’uscita del neonato, e altro ancora.
Poche settimane fa anche il Consiglio d’Europa, con la direttiva 2306, ha chiesto agli Stati membri di legiferare sulla questione. Insomma, se ne torna a parlare dopo la campagna #bastatacere, che nel 2017 aveva squarciato un velo di silenzi. Cos’è cambiato in questi anni?
C’è una direttiva europea
Il volume di Marcello Di Fazio prende spunto da una storia personale.
«Sono papà di tre bambini e ho vissuto con mia moglie tre nascite completamente diverse. La peggiore è stata quella in ospedale, quasi traumatica. Da lì ho conosciuto l’associazione “Goccia magica”, che sostiene le donne durante la maternità e ho raccolto tante testimonianze, che si sono poi trasformate nel romanzo. Lo scopo non è giudicare le strutture sanitarie, ma veicolare un messaggio: le future mamme devono informarsi, prendere coscienza di quello che accade durante la nascita del bebè e pretendere di essere ascoltate».
È anche il punto di partenza della direttiva europea, che chiede campagne informative, meccanismi di denuncia e finanziamenti alle strutture per garantire la migliore assistenza. Si muove sulla stessa strada l’Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia, nato proprio dopo la campagna #bastatacere.
Ma i passi che ha fatto sono pochi e non per sua volontà, come racconta la fondatrice Elena Skoko: «Dalla campagna è emerso che il 21% delle donne italiane, ovvero più di un milione, ha subito maltrattamenti fisici o verbali durante il travaglio. Eppure nulla si è mosso: le istituzioni sembrano mute.
Abbiamo contattato il ministero della Salute, ma senza grandi successi. E in Parlamento c’è una legge ferma da due anni. Tutto rimane legato ai singoli: diversi ospedali hanno cambiato il modo di agire, sono più sensibili alla questione, così come sono attive le associazioni sul territorio che fanno corsi ad hoc su parto naturale, episiotomia e induzione. Ma per il resto abbiamo trovato un muro. L’episiotomia, per esempio, è ancora realtà in 6 casi su 10».
Serve il coinvolgimento del singolo
E gli imputati, ovvero i medici e il personale sanitario, come controbattono? «Dopo la campagna “bastatacere”, abbiamo inviato un questionario negli ospedali», spiega Elsa Viora, presidente dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedali italiani.
«Hanno risposto più di 13.600 donne e il 95% si è dichiarata soddisfatta del proprio parto. Certo, le criticità non mancano ma non dobbiamo demonizzare un’intera categoria di sanitari che lavora con passione, oltre a indurre sfiducia nel Servizio sanitario che funziona bene e garantisce assistenza a tutti. Quando ci sono problemi, è doveroso che le mamme li denuncino, come dice la direttiva del Consiglio d’Europa».
La campagna, in ogni caso, ha acceso i riflettori sui diritti delle pazienti e ha reso i medici più sensibili al tema.
«Da una decina d’anni le cose sono cambiate e continueranno a farlo. Serve più empatia e bisogna coinvolgere le donne. I nostri ospedali sono all’avanguardia e il personale è preparato. Ma mancano risorse e, quindi, non sempre si riesce a garantire l’assistenza perfetta. Nel 2018, poi, circa 77mila donne hanno partorito in strutture che non hanno i requisiti minimi (almeno 500 parti all’anno). La conseguenza? Qui il personale è meno esperto ed è anche meno presente. Chiaro che i problemi sono dietro l’angolo».
La carenza di personale riguarda anche le ostetriche, come denuncia l’Oms: nel nostro Paese sono 17.300 e siamo al 17esimo posto in Europa, considerando il numero di cittadini di ogni nazione.
Un modello da seguire
Per fortuna, si stanno diffondendo buone pratiche. Tra gli ospedali pubblici spicca il Sant’Anna di Torino. «Abbiamo riorganizzato le cure, dividendo le gravidanze a basso rischio da quelle patologiche», spiega Paola Serafini, dirigente dell’area infermieristica.
«Le prime sono fisiologiche, senza problemi e le mamme partoriscono nel reparto di fisiologia ostetrica o nel centro nascita, entrambi gestiti dalle ostetriche: così si riduce la medicalizzazione, c’è un’assistenza 1 a 1 (un’ostetrica per ogni mamma), il clima è sereno e l’episiotomia si fa solo in 1 caso su 100. Le gravidanze patologiche, invece, hanno un reparto dedicato con personale sempre in prima linea. In ospedale, poi, la donna può avere 24 ore su 24 una persona cara al suo fianco e questo migliora la qualità della degenza. Infine, c’è anche un ufficio qualità che monitora la situazione, così possiamo risolvere subito le criticità».
Il piano del parto
Le future mamme possono scrivere il piano del parto. In pratica, è una specie di carta dei desideri, un documento in cui si annotano le proprie preferenze. Qualche esempio? La volontà di non subire l’episiotomia o manovre non necessarie, l’utilizzo o meno di determinati farmaci, l’esigenza di muoversi durante il travaglio e avere il compagno con sé anche in caso di cesareo.
A questo si possono aggiungere altri dettagli che favoriscono l’esperienza del parto, la rendono più intima e, soprattutto, non ledono i propri diritti. Il documento va consegnato in ospedale prima del ricovero. Se il personale non lo accetta o contesta, meglio allertarsi: significa che non è abbastanza “attento”.
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Articolo pubblicato sul n. 51 di Starbene in edicola dal 3 dicembre 2019