Donne maltrattate: il racconto di una giornalista-volontaria nei centri antiviolenza

Dedicano parte del loro tempo libero ad aiutare le donne maltrattate. Perché lo fanno? Ce lo spiega una giornalista, impegnata in prima persona



hero image


Di cosa ha bisogno una donna che subisce violenza da un uomo che ama? A chi può chiedere aiuto? Alle forze dell’ordine, a un avvocato, ai servizi sociali o a uno psicologo, certamente. Ma quello che serve di più, all’inizio, è qualcuno che ascolti con discrezione la sua storia, perché spesso una donna maltrattata si vergogna di rivelare la sua situazione anche ai familiari o alle amiche. Per questo motivo sono nati in tutta Italia i centri antiviolenza, luoghi in cui chi subisce maltrattamenti sa che la sua storia sarà accolta e protetta.

Il Centro aiuto donne maltrattate di Monza (Cadom), per esempio, è un’associazione di volontariato aconfessionale e apartitica, composta di sole donne, che lavora in quest’ambito dal 1994. Le volontarie che ogni settimana ritagliano qualche ora della loro vita per stare qui sono arrivate in momenti diversi e seguendo percorsi differenti. Io sono una di loro. Sono giornalista e do una mano da cinque anni: lavoravo da poco alla rivista Tu Style, scrivevo per donne e le donne scrivevano, tantissimo, a noi. Erano molte le storie di violenza, spesso nascoste dietro un nome di fantasia, e si somigliavano tutte. Donne innamorate che all’improvviso si trovavano per casa un mostro, un uomo sempre pronto a disprezzarle (la violenza psicologica è dolorosa come e più di una sberla) e ad alzare le mani. Donne madri che non sopportavano l’idea che i loro figli assistessero a liti sempre più violente, a pianti, a lividi difficili da spiegare. Donne che non volevano arrendersi, che non ce la facevano a dire “basta, finisce qui”, che sognavano di fuggire ma non trovavano il coraggio di farlo.


Che cosa ci spinge
Ho seguito un corso di formazione di sei mesi, ho affrontato un tirocinio e iniziato il mio cammino. Lavoro con pensionate e studentesse, insegnanti, infermiere e casalinghe: non indirizziamo, non diamo soluzioni precotte, siamo solo buone orecchie e valide spalle. E siccome tra noi ci sono avvocate e psicologhe, in caso di necessità chiediamo il loro aiuto: una donna ha bisogno di essere informata per risolvere una situazione con mille sfaccettature, tutte devastanti.
Anche Elena Franzoni, 41enne avvocato a Monza, sposata e madre di tre bambini è arrivata qui perché il suo lavoro l’aveva portata a contatto con le vittime dei maltrattamenti: «Mi era capitato di assistere donne che avevano subito violenza. Mi aveva colpito la loro fragilità. Noi volontarie aiutiamo, ma riceviamo anche. Io, per esempio, ho modificato l’approccio con le clienti che si rivolgono a me per problemi simili. In passato faticavo ad accettare che una donna, dopo aver trovato il coraggio di denunciare chi la picchiava, decidesse di fare marcia indietro. Oggi capire è più semplice: so quanta sofferenza c’è dietro ma soprattutto quanto coraggio serve. C’è anche chi esita perché teme che la legge italiana non tuteli abbastanza. Vorrei rassicurare tutte: in Italia ci sono buone leggi, la sensibilità dei giudici è aumentata, c’è più cultura su questi fatti. Ci si può fidare».


Che cosa ci insegna
Benedetta Vergani, 45enne madre di due adolescenti e insegnante di matematica in un istituto superiore, è stata spinta dagli ideali: «Mi affascinano l’idea di far parte di un cambiamento sociale possibile, la sorellanza, la condivisione di sentimenti e di emozioni. Sicuramente il lavoro che faccio qui ha affinato, nella scuola in cui lavoro, la mia sensibilità, la capacità di andare a fondo nella comprensione dei ragazzi e dei loro genitori, di calcolare sempre il contesto sociale in cui ciascuno di loro si muove perché l’ambiente influenza ogni nostra scelta. Fare questi incontri ti cambia anche come donna e ti allena all’introspezione, ti insegna a non essere frettolosa nel cercare soluzioni ai problemi».
Cristina Frasca, 44 anni, è psicologa da vent’anni ed è mamma anche lei. Arrivata al Cadom col desiderio di entrare a far parte di un’associazione (“da libera professionista ogni tanto mi sentivo sola”), si era laureata con una tesi sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Insomma, al Cadom chiudeva un cerchio: «Molti non riescono a capire cosa spinga una donna a rimanere accanto a un uomo violento o come mai decida di denunciarlo solo dopo anni di violenza. Ma occorre capire che per chi si trova in questa situazione è difficile immaginare una realtà diversa: cambiare significa stravolgere un’esistenza dolorosa ma nota per andare incontro a un futuro che sembra incerto. Aggiungiamoci la formazione culturale del nostro Paese in cui una famiglia con pessimi genitori è considerata ancora meglio di una famiglia con un genitore solo e il quadro è completo».


Che cosa ci lascia nel cuore
Ciascuna di noi si porta alcune donne nel cuore: la mia è una rumena. Un uomo italiano si è innamorato di lei e dei suoi lunghi capelli biondi: ma dopo il primo schiaffo lei si è chiusa in bagno e li ha tagliati tutti, con le forbici, per dirgli che non era più sua. Se n’è andata di casa, ha trovato un lavoro e un altro l’uomo che le vuole bene davvero. E ha fatto pace col suo passato perché adesso non ha più paura, neanche dei ricordi. Anche Benedetta ne ha una “particolare”: «Ha la mia stessa età, due figli come me e facciamo lo stesso lavoro: con un po’ di fortuna in meno e qualche incontro sbagliato in più quella donna maltrattata avrei potuto essere io».


Un posto sicuro
Quaranta volontarie di età, formazione, esperienze diverse a turno disponibili nella sede monzese del Cadom per ogni donna in difficoltà: da quando è stato aperto nel 1994, il centro ne ha aiutate oltre 4000. Se agli inizi le persone accolte erano circa 50 l’anno, nel 2017 il numero è salito a 380. Il 70 % è di nazionalità italiana, ha tra i 27 ai 58 anni. Appartengono a ogni categoria sociale e culturale. In tempi recenti si è registrato un preoccupante aumento anche del numero di ragazze (sotto i 25 anni) vittime di violenza. E siccome l’accoglienza deve essere tale fino in fondo, la sede è stata completamente ristrutturata nelle scorse settimane: colori caldi alle pareti, arredamento rinnovato, stanze per i colloqui più intime e raccolte.

Il festival (e la mostra) per i diritti delle donne
Proiezioni, dibattiti, performance teatrali, mostre e incontri con grandi personaggi (uno su tutti, l’astronauta Samantha Cristoforetti). È il WeWorld Festival che si svolge a Milano dal 23 al 25 novembre negli spazi dell’UniCredit Pavilion in piazza Gae Aulenti. Filo conduttore: le donne e i loro diritti, con approfondimenti dedicati alle violenze subite, in occasione delle celebrazioni per il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Durante i tre giorni del festival sarà in esposizione il progetto fotografico Effetti collaterali, quando le donne non si danno per vinte della fotoreporter Isabella Balena, protagoniste dei suoi scatti sono tante “eroine” moderne. Come Lucia Annibali, avvocato e deputata (foto a destra), e Agitu Ideo Gudeta, allevatrice (in alto). Tutti gli appuntamenti in programma sono gratuiti.



Articolo pubblicato nel n° 49 di Starbene in edicola dal 20 novembre 2018

Leggi anche

Violenza sulle donne: come aiutare una vittima

Violenza contro le donne: la prevenzione comincia da bambini