Uno studio appena pubblicato sul New england journal of medicine apre la strada alla speranza di riuscire a ribaltare finalmente il destino di chi soffre della forma di tumore ovarico BRCA positivo, ovvero la nota “mutazione Jolie”.
Fino a oggi le forme avanzate del tumore ovarico BRCA (cioè quando la malattia si ripresenta) sono state curate con Olaparib, un farmaco che ha la capacità di uccidere in modo selettivo le cellule tumorali. Nello studio, invece, ed è qui la novità, il farmaco fa parte delle terapie messe in atto alla diagnosi, quindi da subito. Lo studio ha messo in cura un gruppo di donne per due anni con Olaparib. A distanza di un anno dal termine della cura, sei su dieci sono ancora vive e senza segni della malattia. E si stima che dopo quattro anni saranno ancora vive 5 su dieci.
Come funziona la terapia
«Nella storia della terapia del tumore all’ovaio non si era mai visto un risultato così evidente in termini di tempo vissuto prima che la malattia si ripresenti», dice Nicoletta Colombo, direttore della divisione di ginecologia oncologica medica dell’Istituto europeo di oncologia di Milano.
«L’ipotesi è che si inneschi un meccanismo immunologico, cioè che il farmaco stimoli il sistema immunitario. Ma è ancora presto per affermarlo con certezza, bisogna aspettare i risultati di uno studio al momento ancora in corso».
Chi è a rischio e come fare prevenzione
«Questo tumore viene definito ancora oggi il killer tra i tumori ginecologici, perché spesso la diagnosi avviene tardivamente», sottolinea Domenica Lorusso, responsabile UOS terapia medica ginecologica, Istituto nazionale dei Tumori di Milano. «I disturbi infatti sono vaghi e molte volte vengono curati per diverticolite oppure colite. Per questo, è sempre meglio sottoporsi una volta all’anno a una visita ginecologica di controllo con ecografia transvaginale. E in caso di sintomi che non si risolvono entro un mese, come anche un semplice gonfiore, bisogna parlarne col ginecologo».
Il tumore ovarico è più frequente nella fascia d’età over 45. È a rischio, inoltre, chi ha almeno due familiari che per linea materna e paterna hanno avuto un tumore del seno, oppure delle ovaie, o del pancreas, o ancora della tumore della prostata.
«Studi come quello appena pubblicato lanciano un messaggio importante, perché evidenziano l’importanza dei test genetici», sottolinea Solange Peters, Responsabile di oncologia medica del Centre Hospitalier Universitaire Vaudois di Losanna, Svizzera e prossimo Presidente ESMO, l’associazione che riunisce gli oncologi europei. «Permettono di applicare terapie altamente mirate o personalizzate, in base alle caratteristiche del tumore di ciascun paziente». Eppure non è così scontato che una donna alla diagnosi di tumore ovarico venga sottoposta al test per conoscere se si è portatrici di uno oppure entrambi i geni BRCA, come ha dimostrato l’indagine Every Woman promossa dalla World ovarian cancer coalition e condotta in 44 Paesi del mondo. Guardando il dato italiano, il 65,2% delle donne ha dichiarato di avere eseguito il test prima o dopo la diagnosi.
L'intervento chirurgico è sempre valido
La chirurgia è quasi sempre un passo obbligato. Unica eccezione, quando la malattia è troppo avanzata. «Oggi si sa che se la paziente viene operata in un Centro di eccellenza ha 30 mesi di sopravvivenza in più rispetto a chi viene operata in un altro ospedale», aggiunge la dottoressa Lorusso».
Attenzione quindi a farsi “catturare” dall’idea di un intervento mininvasivo per non avere cicatrici. È indicato, ma solo in mani esperte e quando il tumore è in fase iniziale. «Dopo la diagnosi il ginecologo, per quanto bravo, non basta più», conclude la dottoressa Lorusso. «Bisogna affidarsi a una struttura che comprenda un reparto di ginecologia oncologica».
articolo pubblicato il 31 ottobre 2018
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