Scappare dal Sud o restare, per curare il cancro? Sono migliaia ogni mese i pazienti che attraversano l’Italia, in cerca di terapie migliori rispetto a quelle che pensano di avere vicino a casa. Circa il 15-20% parte dalla Sicilia, addirittura il 40% dalla Calabria.
L’oncologia nel Meridione sta così male? Un recente caso di cronaca ha riaperto il dibattito. Un oncologo dell’istituto nazionale dei tumori Pascale di Napoli, Antonio Marfella (responsabile della sezione di Napoli di Isde-Associazione medici per l’ambiente) ha scelto di curare il proprio tumore al Nord, non presso il suo istituto.
«Non volevo saltare la fila, approfittando del mio status di medico. E mi trovavo di fronte a tempi di attesa troppo lunghi», ammette il dottor Marfella. E poi c’è il discorso degli standard di qualità. «Per la prostatectomia, viene indicato un minimo di 250 interventi l’anno per raggiungere l’eccellenza. Al Pascale di Napoli non si superano i 120», aggiunge. Al Nord, invece, dall’Ieo al San Raffaele di Milano, passando per il Careggi di Firenze o la casa di cura Pederzoli di Peschiera del Garda, sono numerosi i centri che rispettano questa soglia.
«Ma non era una condanna al mio istituto o alla sanità del Sud. Avevo parlato pubblicamente del mio caso per richiamare l’attenzione sui rischi ambientali. I tumori sono sempre più frequenti in tutta Italia, e l’età in cui insorgono si sta abbassando. Eppure le istituzioni non prendono di petto vere calamità come fumo, polveri sottili o smaltimento illegale dei rifiuti».
Il divario sulla sopravvivenza è in calo
Che cosa manca al Sud? Se guardiamo alle percentuali di sopravvivenza dei malati, a 5 anni dalla diagnosi, il divario si sta assottigliando.
Secondo gli ultimi dati Airtum, elaborati dalla ricerca Osservasalute 2017, sulla popolazione maschile il tasso medio è del 65% in Emilia Romagna e Toscana, le migliori, e scende al 61% in Puglia, 60% Sicilia, 59% in Campania. Tra le donne si oscilla fra il 56% e il 50%, ma sono differenze che non hanno a che fare con la qualità delle cure, anche perché dentro il dato c’è sia chi si è curato nella Regione di residenza, sia chi si è operato al Nord ma poi ha proseguito le cure vicino a casa.
La vera carenza è l’organizzazione
«Il grave problema del Meridione è l’organizzazione», ammette Saverio Cinieri, direttore dell’Unità operativa complessa di oncologia medica all’ospedale Perrino di Brindisi e tesoriere nazionale Aiom (Associazione italiana oncologia medica).
Chi riceve una diagnosi di cancro, poi, deve aspettare troppo per le cure. Secondo Cittadinanzattiva, al Nord il 100% dei cittadini accede entro 60 giorni alla chirurgia, al Centro l’88% e al Sud il 77%. E poi si fanno pochi interventi. Ma per quale motivo?
Prendiamo ancora la prostatectomia: se all’Ircss Pascale di Napoli non si superano i 120 interventi l’anno, mentre all’Ieo di Milano se ne effettuano 700, non è perché le apparecchiature hi-tech non ci siano, ma perché sono poco usate. «Anni di sprechi e cattiva gestione hanno causato il blocco del turnover e poco personale», aggiunge Antonio Marfella.
Per il tumore alla mammella, una recente indagine condotta dal sito doveecomemicuro.it, spiega che ci sono solo 140 strutture a raggiungere la soglia minima di 150 interventi annui fissata dal Ministero e di questi, il 51% si trova al Nord, il 26% al Centro e il 23% al Sud. «Va da sé che strutture che eseguono 10 interventi all’anno non possono offrire le stesse garanzie di quelle che ne fanno 200 o 2000», commenta Paolo Veronesi, direttore di senologia chirurgica dell’Istituto europeo di oncologia di Milano.
Qualcosa sta cambiando
Anche al Sud, comunque, i centri di eccellenza sono in aumento. A Bari, il Policlinico è al quinto posto in tutta Italia per numero di interventi annui di tumore maligno all’utero (172). E all’Istituto oncologico, dall’anno scorso, è arrivata la biopsia “rm guidata” per la diagnosi del tumore al seno, che può individuare lesioni non visibili con mammografia ed ecografia.
Il Policlinico “Paolo Giaccone” di Palermo è all’avanguardia per quanto riguarda il counselling genetico dei tumori femminili, mentre il sistema robotico Da Vinci, uno dei più avanzati per la chirurgia tumorale (100 in tutta Italia), è ormai arrivato al Cardarelli di Napoli, al Policlinico di Messina o, proprio questo mese, al Policlinico universitario di Catania. Mentre a Taranto, a fine 2017, è arrivato il sospirato Dipartimento di oncologia pediatrica.
Come regolarsi, allora?
«Non bisognerebbe pensare subito di dover emigrare, magari perché sollecitati da parenti che già vivono al Nord», sintetizza il dottor Cinieri. «Occorre scegliere con cura, privilegiando quegli istituti dove oltre al tradizionale reparto oncologia c’è anche la sezione di ricerca clinica. Così si è certi di avere a disposizione personale medico preparato e capace di prescrivere le cure più efficaci».
Per le donne, nei casi di tumori alla mammella, meglio scegliere poli ospedalieri dotati di “Breast unit”: «Significa che si viene assistiti da un pool integrato di specialisti, non solo l’oncologo ed il chirurgo della mammella ma anche il radiologo, l’ecografista, il radioterapista e così via, fino allo psicologo».
L’importanza delle reti specializzate
Le reti oncologiche sono un sistema centralizzato che gestisce il paziente con un tumore dalla presa in carico fino alle cure domiciliari, smistandolo in automatico nei centri migliori del territorio per quel particolare tipo di patologia, senza che sia lui a muoversi alla ricerca dell’esperto di turno. È dimostrato che questo approccio migliora le cure e abbassa la spesa sanitaria (ad esempio per cure o ricoveri impropri).
Attualmente le reti funzionano solo in poche Regioni: Piemonte e Valle d’Aosta sono in pole position, seguono Lombardia, Toscana, Trentino, Umbria e Veneto, Liguria. In Puglia e Campania si comincia a utilizzare, nel Lazio la si sta riordinando, in Sardegna è stata approvata la delibera per la realizzazione.
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Articolo pubblicato sul n. 20 di Starbene in edicola dal 1/05/2018