È l’aspetto gioioso e sorridente a caratterizzare i bambini con la sindrome di Angelman, una rara malattia genetica che – dietro un’apparente felicità – nasconde gravi disabilità motorie e cognitive. A ispirare il nome con cui spesso veniva identificata in passato, cioè sindrome del sorriso perenne, è stato il quadro “Fanciullo con disegno” di Giovanni Francesco Caroto, che convinse il pediatra inglese Harry Angelman a descrivere per la prima volta questa sindrome genetica: il medico, infatti, riconobbe proprio nei tratti del fanciullo di Caroto le caratteristiche di alcuni suoi piccoli pazienti, che avevano scoppi di riso immotivati e muovevano a scatti arti e tronco. «Il sorriso è un tratto distintivo dei bambini con sindrome di Angelman, che appaiono allegri, ridono spesso, amano il contatto fisico e agitano le braccia fingendo di volare», racconta la dottoressa Silvia Russo, ricercatrice nell’ambito delle Malattie Rare presso il Laboratorio di Citogenetica e Genetica Molecolare dell’Irccs Istituto Auxologico Italiano (Milano).
Che cos’è la sindrome del sorriso perenne e i sintomi
La stima sulla frequenza della sindrome di Angelman nella popolazione generale non è precisa: si pensa che interessi circa 1 nato ogni 12.000-24.000 e non inficia l’aspettativa di vita, che resta del tutto normale. A caratterizzare i bambini che ne soffrono sono la disabilità intellettiva (da media a severa), l’assenza quasi sempre completa della capacità di parlare e la presenza di epilessia che si associa a un tracciato elettroencefalografico ben riconoscibile per gli epilettologi esperti, che suggerisce il sospetto della malattia. «Le crisi epilettiche sono spesso controllabili con i farmaci, ma non tutti gli antiepilettici sono adeguati ed è per questo che occorre sempre rivolgersi a medici che abbiano una specifica conoscenza della malattia», tiene a precisare la dottoressa Russo.
«Un altro sintomo molto frequente è l’alterazione del ciclo sonno-veglia; infatti, questi bambini dormono poco e male. Distintivo della sindrome è anche un tipico comportamento, caratterizzato da scoppi di risa talvolta scatenate da situazioni aspecifiche oppure che si verifica in circostanze non congrue, come un prelievo ematico. E poi ci sono una scarsa capacità di attenzione, una iperattività motoria e un atteggiamento pro-sociale, ovvero la facilità di stabilire un contatto di sguardo e la curiosità verso le altre persone». Inoltre, a seconda del difetto genetico, possono subentrare altri tratti caratteristici dei pazienti, come microcefalia (ridotta circonferenza cranica), crisi epilettiche o ipopigmentazione della cute e degli occhi.
Quali sono le cause e quanto pesa la genetica
Alla base della sindrome di Angelman c’è un difetto genetico, cioè un “errore” presente nel DNA. «Se immaginiamo i nostri geni come tanti manuali di istruzioni che insegnano alle cellule come produrre una certa proteina, nella sindrome di Angelman l’errore sta nel tratto di DNA che si trova sul cromosoma 15, quello che normalmente produce la proteina UBE3A», spiega l’esperta.
«La particolarità di questa malattia risiede in un meccanismo chiamato imprinting genetico. In sostanza, ciascuno di noi eredita un cromosoma 15 dalla mamma e un altro cromosoma 15 dal papà. Generalmente entrambi funzionano allo stesso modo, ma nei neuroni il gene che viene ereditato dal papà resta “dormiente”, quindi non funziona, per cui l’unico a produrre UBE3A è quello materno. Ne deriva il fatto che se quest’ultimo è difettoso, il bambino sviluppa la malattia».
Perché è così importante la proteina UBE3A? «La sua carenza altera la comunicazione tra i due “bottoncini”, detti sinapsi, che uniscono i neuroni, che a quel punto funzionano male e determinano importanti deficit nell’apprendimento e nella memoria. UBE3A svolge tantissime funzioni nel sistema nervoso: è importante per regolare la plasticità neuronale, è coinvolta nello smaltimento di proteine che devono essere degradate e interagisce con specifiche proteine nei neuroni, quelle del sonno, e questo spiega perché i pazienti con sindrome di Angelman hanno difficoltà a dormire».
Come avviene la diagnosi
Al momento della nascita, i bambini con sindrome di Angelman sembrano assolutamente sani, ma dai 5-6 mesi iniziano a mostrare piccoli segnali di qualcosa che non va, come difficoltà aspecifiche dell’alimentazione (per esempio nella suzione o nella deglutizione), disturbi del sonno o facile eccitabilità. Ma la diagnosi vera e propria arriva intorno ai 12 mesi grazie a una valutazione neuropsichiatrica, dopo aver riscontrato che le normali tappe di crescita non sono rispettate: i bambini iniziano a camminare tardi (fra i 2 e i 4 anni) e, quando lo fanno, adottano una particolare andatura atassica (con le gambe allargate, come se marciassero in mezzo all’erba alta); ci sono ritardi cognitivi più o meno importanti; possono subentrare crisi epilettiche anche severe.
«A mettere nero su bianco che si tratta di sindrome di Angelman è un test genetico, denominato MS-MLPA, che va proprio a studiare quella regione del DNA per capire se esiste un difetto. Da lì si parte per capire esattamente di quale difetto si tratta, perché da quello dipendono l’evoluzione della malattia, le prospettive terapeutiche, ma anche la necessità o meno di studiare anche i familiari per capire il rischio riproduttivo nel caso di successive gravidanze».
A volte, però, l’MLPA non è sufficiente e bisogna proseguire lo studio sequenziando il DNA: «I difetti che determinano l’assenza o il malfunzionamento di UBE3A sono diversi, principalmente quattro. Il più frequente, che caratterizza il 60-70% dei casi, è chiamato delezione e consiste proprio nella mancanza sul cromosoma 15 trasmesso dalla mamma del pezzettino di DNA che contiene UBE3A. In questo caso, i genitori sono sani e il loro rischio di avere un secondo figlio con questa malattia risulta molto basso. In meno del 10% delle diagnosi, invece, i genitori sono portatori sani e quindi hanno un rischio riproduttivo più elevato. È importante conoscere quale difetto genetico ha il bambino con la sindrome di Angelman, sia per conoscere il tipo di quadro clinico più o meno severo che svilupperà, sia per stabilire il rischio riproduttivo dei genitori e dei loro stretti familiari».
Quali sono le complicanze
«In genere i bambini con sindrome di Angelman non parlano, ma si può utilizzare con loro la comunicazione aumentativa alternativa, una particolare tecnica che viene sfruttata in molte patologie congenite o acquisite dove sono presenti deficit del linguaggio più o meno severi. In pratica, ai bambini si insegna ad associare parole, oggetti o sentimenti a un simbolo disegnato, partendo dai concetti più semplici come “mamma”, “papà”, “letto” o “pappa”, in modo che possano indicarli all’occorrenza». Erroneamente, infatti, questi bambini vengono spesso associati ai soggetti con spettro autistico per il fatto che fanno fatica a sviluppare un linguaggio verbale ai fini comunicativi, ma nella sindrome di Angelman c’è una forma di interazione con il mondo esterno, che si può potenziare.
Come si tratta
Come per tutte le malattie rare, è fondamentale rivolgersi a un centro specializzato e dalla comprovata esperienza. Per destreggiarsi meglio sul territorio nazionale, si può consultare il sito dell’associazione OR.S.A., nata dall’incontro di alcune famiglie con bambini affetti dalla sindrome di Angelman che hanno generato una serie di esperienze e una sempre più approfondita conoscenza della malattia.
Sul sito è possibile trovare un’apposita sezione dedicata ai centri di riferimento italiani, dove i bambini vengono presi in carico da un’équipe multidisciplinare per gestire – farmacologicamente oppure attraverso specifici interventi abilitativo-riabilitativi – le crisi epilettiche, i disturbi del movimento e comportamentali, la postura scorretta, il sonno disturbato, la mancanza di linguaggio, la dimensione cognitiva e relazionale, in modo da favorire lo sviluppo di competenze e autonomia. «Nel frattempo, sono in corso diverse ricerche per trovare una cura, che al momento non c’è. Ci sono promettenti trial clinici che stanno puntando a rendere funzionante il gene paterno per “compensare” il difetto del gene ereditato dalla mamma: le sperimentazioni sui topi sono incoraggianti, ma adesso si tratta di trasferirle sull’uomo. Siamo solo all’inizio, il percorso è ancora lungo, ma la ricerca ha fatto passi da gigante. È necessario continuare a lavorare su questo fronte per ottenere i risultati sperati», conclude la dottoressa Russo.
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