Ne siamo circondati perché sono utilizzati per rivestire utensili da cucina come pentole e contenitori, ma possono essere presenti anche in alcuni detergenti per la casa così come in tessuti termici o componenti e cover per smartphone, grazie alla loro capacità di impermeabilizzare dal grasso, isolare dal calore e impermeabilizzare dall’acqua. Sono i PFAS (per- e polifluoroalchiliche), una sigla che indica alcuni composti chimici a base plastica, introdotti negli anni ’50 in tutto il mondo, Italia compresa.
Utili e duttili, quindi, ma ritenuti interferenti endocrini, potenzialmente molto pericolosi, specie per donne in gravidanza e bambini. L’esposizione a queste sostanze, infatti, è nel mirino da diverso tempo, per la potenziale azione sull’apparato riproduttivo. Ora uno studio americano punta l’attenzione su un nuovo aspetto: potrebbero essere responsabili anche dell’obesità.
Cosa hanno scoperto i ricercatori Usa
Alcuni ricercatori della Brown University di Providence (Rhode Island, Usa) hanno scoperto un’associazione tra l’esposizione ai PFAS in gravidanza, dunque durante la vita fetale, e indici di massa corporea leggermente più elevati, oltreché a un maggior rischio di obesità dopo la nascita e nel corso dello sviluppo. Lo studio, pubblicato su Environmental Health Perspectives e guidato da Joseph Braun, ha preso in esame un campione di 1.391 bambini di età compresa tra due e cinque anni, e le loro madri.
In particolare, sono stati vagliati i livelli di sette differenti PFAS nel sangue, per capire se l’esposizione a queste sostanze potesse influire sullo stato di salute nel corso di 20 anni. Ciò che è emerso è proprio un nesso a livello di massa corporea nel campione. «I ricercatori hanno evidenziato che più elevati livelli di PFAS nel sangue della madre durante la gravidanza erano correlati a indice di massa corporea leggermente più alti. L’aumento dell’obesità, poi, è stato osservato in modo uguale sia tra i maschi che tra le femmine, con l’associazione che sarebbe stata evidenziabile anche a livelli bassi di PFAS», conferma il professor Carlo Foresta, ordinario di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Padova, direttore UOC Andrologia e medicina della riproduzione e membro Consiglio superiore di Sanità.
Perché i PFAS influiscono sul peso
«Anche se l’uso di queste sostanze nei prodotti è diminuito, le donne in gravidanza potrebbero ancora essere a rischio di danni», ha spiegato ancora Braun, secondo il quale «anche i figli potrebbero essere a rischio di effetti dannosi sulla salute associati ai PFAS», anche con esposizioni a livelli contenuti di PFAS.
Ma in che modo queste sostanze riuscirebbero a influire sul peso corporeo? «L’ipotesi più probabile – spiega Foresta – è legata alla capacità dei PFAS di interferire su alcuni recettori metabolici che sono presenti su diverse cellule. Queste sostanze, infatti, riescono a penetrare nelle membrane delle cellule, specie dove c’è colesterolo, alterandone la normale funzione, quindi anche il metabolismo potrebbe risentirne. Questo, però, è solo uno degli effetti degli PFAS sull’organismo».
I PFAS e altre potenziali malattie
Non è la prima volta, infatti, che si indagano i possibili effetti nocivi dei PFAS, in particolare per la loro azione di interferenti endocrini. Inodori, incolori e insapori, si disperdono in acqua e in aria, e sono difficilmente degradabili. Finora sono emerse diverse conseguenze a carico della soprattutto della tiroide e del sistema riproduttivo, in particolare femminile.
«Diversi studi hanno mostrato in modo univoco che, tra le manifestazioni cliniche imputate all’esposizione a queste sostanze, ci sono ad esempio poli-abortività, basso peso alla nascita, nati pre-termine, endometriosi, potenziali effetti sulla fertilità maschile e femminile, ipercolesterolemia e diabete, osteoporosi, tireopatie, alterazioni cardio-e cerebro-vascolari, riduzione della risposta immunitaria e alterazioni nervose», spiega l’endocrinologo.
Come agiscono i PFAS sull’uomo
Come spiega Foresta «è interessante considerare che anche i bassi livelli di queste sostanze riscontrabili nella popolazione generale possono costituire un fattore di rischio per manifestazioni cliniche associate a questa forma di inquinamento. I nostri studi effettuati negli ultimi cinque anni hanno permesso di identificare anche i possibili meccanismi attraverso i quali causano le manifestazioni cliniche: ad esempio, queste sostanze agiscono riducendo l’attività biologica del testosterone attraverso l’interferenza con il suo recettore.
Inoltre, abbiamo dimostrato che si legano alle membrane degli spermatozoi riducendone la motilità e quindi la fertilità. Per quanto riguarda la poliabortività i PFAS riducono l’attività del progesterone a livello endometriale alterando quindi la capacità dell’endometrio di accogliere l’embrione e di supportarne lo sviluppo. Per quanto riguarda l’osteoporosi abbiamo dimostrato che i PFAS legano il recettore per la vitamina D riducendone l’attività e quindi riducendo l’assorbimento del calcio; questo fenomeno porta poi a un indebolimento della struttura scheletrica. Un altro fenomeno molto grave potrebbe essere quello degli eventi cardiovascolari, che dai nostri studi potrebbe essere indotto dall’attivazione delle piastrine indotta dai PFAS, con conseguente facilitazione della formazione di trombi».
I PFAS in Italia: triangolo rosso in Veneto, allarme in Lombardia
Anche in Italia da tempo i PFAS sono monitorati con attenzione, in particolare in Veneto e in Lombardia. Qui di recente un report di Greenpeace Italia ha mostrato la presenza dei composti chimici nell’acqua. In particolare nel 19% dei campioni di acqua prelevata ci sarebbe la presenza di PFAS. A Milano un campione su tre è risultato inquinato.
Ma la situazione sarebbe preoccupante anche in altre province come Lodi, con l’84,8% positivo, Bergamo e Como, rispettivamente con il 60,6% e il 41,2%. Non va meglio neppure in Veneto, dove esiste quello che è stato ribattezzato il “triangolo rosso”, tra Vicenza, Padova e Verona, a causa della presenza di una azienda, la ex Molteni ormai fallita ma presso la quale non sono state effettuate bonifiche, che avrebbe portato a una dispersione di PFAS nelle acque anche di falda.
Come ridurre i PFAS nella quotidianità
Ma come ridurre i rischi? «La riduzione dell’inquinamento ambientale è sicuramente il punto fondamentale, ma rimane il grosso problema della lunga permanenza di queste sostanze nell’organismo. Queste sostanze si accumulano in particolari organi (fegato, scheletro, sangue) e permangono per molti anni, in alcuni casi fino a 10 anni» chiarisce l’endocrinologo. «Pertanto, anche se oggi azzerassimo completamente ogni fonte di esposizione a queste sostanze, quelle già accumulate negli anni precedenti resterebbero ancora in circolo negli organismi per molti anni. Ad oggi non è stato ancora individuato nessun metodo per ridurre il tempo di permanenza dei PFAS nell’organismo».
La prevenzione, dunque, rimane la strada principale, tramite la minor esposizione possibile a queste sostanze, anche se nella vita quotidiana è difficile evitare il contatto con i PFAS «poiché queste sostanze oramai sono presenti in svariati prodotti di uso quotidiano (rivestimenti antiaderenti, packaging alimentare, abbigliamento impermeabile, prodotti cosmetici, ecc.). Laddove l’inquinamento sia avvenuto indipendentemente dai controlli, le acque, sia potabili che di falda, sono quelle che maggiormente veicolano l’inquinamento attraverso la rete acquedottistica, ma anche attraverso l’irrigazione e il loro inserimento nel ciclo alimentare», prosegue l’esperto, che ha studiato anche una possibile soluzione per accelerare lo smaltimento della presenza dei PFAS nell’organismo.
Un possibile alleato: il carbone attivo
L’obiettivo è ridurre la presenza di queste sostanze nel sangue. «Ad oggi non sono ancora disponibili interventi terapeutici mirati e riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale. Ma il nostro gruppo di ricerca presso l’UOC di Andrologia e Medicina della Riproduzione dell’Azienda Ospedale Università di Padova ha identificato sperimentalmente possibili forme di intervento basandosi sulle dinamiche di bioaccumulo di queste sostanze nell’uomo. Da un’intuizione sperimentale ispirata all’attuale tecnologia di filtraggio delle acque, basata sull’utilizzo dei filtri ai carboni attivi, è stato individuato un corrispettivo terapeutico nel carbone attivo vegetale a uso umano» spiega Foresta.
«Il carbone attivo vegetale è una sostanza naturale in grado di trattenere al suo interno molte molecole, e che trova già impiego nel trattamento di intossicazioni da farmaci e avvelenamenti alimentari, nonché per il meteorismo intestinale. La nostra ipotesi sperimentale è stata quindi quella di drenare a livello intestinale i PFAS, rendendoli eliminabili con le feci. Dando il carbone attivo a cicli di 15 giorni interrompiamo l’assorbimento e abbassare il tasso plasmatico».
Lo studio «è già stato condiviso con l’Istituto Superiore di Sanità e rappresenta il primo esempio di un possibile intervento medico sul circolo enteroepatico per i PFAS che consente a queste sostanze di avere vita lunghissima nell’uomo», conclude l’esperto.
giugno 2023
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