Dalla verdesca al palombo: in Italia si mangia carne di squalo ma pochi lo sanno

Verdesche, palombi, gattucci appartengono tutti alla famiglia dei grandi predatori dei mari. Oggi, però, i più in pericolo sono proprio gli squali, perché a rischio estinzione



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Palombo, spinarolo, gattuccio, verdesca, smeriglio: pochi sanno che questi nomi comuni sui banconi del mercato indicano in realtà dei tranci di squalo. In Italia ne consumiamo quasi 10mila tonnellate l’anno. Secondo i dati del WWF, il nostro Paese è tra i maggiori importatori al mondo: è al primo posto per valore complessivo dei prodotti (pari a 345 milioni di dollari tra il 2009 e il 2019), mentre si classifica al terzo posto in termini di volume (con un totale di 89mila tonnellate). Ma sulle tavole e nelle industrie di trasformazione italiane finiscono anche molti squali dei mari nostrani, provenienti soprattutto dall’alto Adriatico (36,7%), dalla Sicilia meridionale (29,1%), dal Mar Ligure e dal Tirreno settentrionale (12,2%).

«La carne di squalo è ricercata perché non ha spine e i suoi tranci possono essere preparati facilmente, con pochi scarti e un’alta resa. Non viene identificata con il suo nome solo per un problema culturale, perché il termine “squalo” può intimorire il consumatore richiamando alla mente l’immagine di un grande e pericoloso predatore dei mari, ma in realtà le specie di cui ci cibiamo sono per lo più di dimensioni contenute, a volte simili a quelle dei merluzzi», spiega Laura Rossi, ricercatrice del Centro Alimenti e Nutrizione del CREA.

«Mangiare carne di squalo, sia fresca che congelata, significa consumare un prodotto con proteine di alto valore biologico e moderate quantità di grassi “buoni”, che sono un po’ inferiori rispetto al pesce azzurro. Se vogliamo una carne più magra possiamo scegliere il palombo, che contiene 80 calorie per 100 grammi e può essere preparato al sugo con il guazzetto, mentre se vogliamo una carne più ricca possiamo optare per la verdesca che è molto simile al pesce spada: apporta 140 calorie per 100 grammi e si presta alla cottura alla griglia».

L’importante è non eccedere, perché lo squalo (come tutti i grandi predatori marini) tende ad accumulare mercurio e altri metalli pesanti nelle sue carni, al pari di tonno e pesce spada. «Questo si verifica soprattutto nelle specie di grandi dimensioni come la verdesca, mentre il problema è più contenuto nelle specie più piccole come il gattuccio o lo spinarolo. Comunque, la raccomandazione è di consumare questi prodotti non più di una volta a settimana e di evitarli in caso di gravidanza»,  precisa la nutrizionista.


Squali in continuo calo

Limitare la quantità di squali che finiscono in tavola è importante non solo per la nostra salute, ma soprattutto per la loro sopravvivenza. Spesso additati come il terrore dei mari (sebbene gli attacchi mortali per l’uomo si contino sulle dita di una mano ogni anno), gli squali in realtà sono gravemente minacciati dalla pesca.

«Sono molto vulnerabili perché fanno poche uova o danno alla luce piccoli, e per di più raggiungono la maturità sessuale dopo molti anni: è, quindi, altissimo il rischio che vengano catturati prima che possano riprodursi e questo impedisce di fatto un ricambio della popolazione, portando a un calo drastico della loro presenza nei nostri mari», spiega Marco Milazzo, professore di Ecologia presso il Dipartimento di Scienze della Terra e del Mare (DiSTeM) dell’Università di Palermo.


Salviamo la biodiversità

Secondo le stime dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), il 50% degli squali del Mediterraneo è a rischio estinzione, tanto che è stato necessario mettere sotto protezione 24 specie tra squali e razze (che ne sono strette parenti), vietandone la detenzione a bordo dei pescherecci, lo sbarco e la commercializzazione.

Allargando lo sguardo oltre il Mediterraneo, la situazione resta allarmante. In base a uno studio internazionale pubblicato su Nature, la popolazione globale di squali e razze è crollata di oltre il 70% negli ultimi 50 anni, «quasi esclusivamente per colpa della pesca», precisa Milazzo. «Mancano azioni incisive da parte delle istituzioni per minimizzare le catture, a causa dell’evidente conflitto con gli interessi della grande pesca industriale».

Proteggere gli squali, però, non è solo una questione di principio, bensì una necessità per salvaguardare l’intero ecosistema marino. Questi predatori, infatti, «mantengono in equilibrio la catena alimentare: fanno in modo che le specie di pesci rimangano bilanciate fra loro, senza che una prenda il sopravvento causando danni. Un controllo utile soprattutto contro le specie aliene, che a causa dei cambiamenti climatici migrano verso nuove regioni invadendole», afferma Milazzo. «Inoltre, non tutti sanno che gli squali sono nostri alleati nella lotta alle emissioni di CO2: catturando le loro prede sequestrano grandi quantità di carbonio, intrappolandole per lungo tempo sul fondale marino senza che vengano riemesse in atmosfera». 

Cosa possiamo fare, dunque, per salvaguardare gli squali? «Innanzitutto bisogna proteggere le aree marine dove si riproducono, vietarne la pesca e regolamentare il turismo. Poi bisogna aumentare la consapevolezza dei consumatori», sottolinea l’esperto. «Il consiglio è quello di chiedere sempre, al mercato come al ristorante, il nome della specie e l’origine del pesce, così da scegliere con cognizione di causa».


Gli squasi più a rischio sono nel Mediterraneo

Non esiste una certificazione di sostenibilità per le specie di squalo. L'IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) raccomanda di non consumare la verdesca e lo smeriglio perché sono specie “a rischio critico di estinzione” nel Mediterraneo.

Considera, inoltre, le tre specie di Palombo presenti nelle nostre acque “vulnerabili all'estinzione”, mentre lo stato di sfruttamento del gattuccio risulta meno preoccupante.


Quanta violenza in una zuppa di pinne!

Oltre 100 milioni di squali vengono uccisi ogni anno, non solo per la loro carne: tra i prodotti più ricercati ci sono le pinne, ingredienti fondamentali per alcuni piatti della cucina asiatica. Per prelevarle, molti ricorrono all’atroce pratica dello “spinnamento” (finning), che consiste nel tagliare le pinne mentre l’animale è vivo, abbandonandone poi il corpo in mare.

Molti Paesi europei sono coinvolti nel business delle pinne di squalo: ogni anno vengono esportate dall’UE 3.500 tonnellate di pinne, per un valore complessivo di 52 milioni di euro. Per questo motivo, associazioni come WWF, LAV e Marevivo stanno combattendo da mesi affinché la Commissione europea elabori un nuovo regolamento che riduca e regolamenti tale pratica.


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